mercoledì 23 marzo 2011

Il Cairo e i giorni della rivolta




Dal 25 gennaio Piazza Tahrir è occupata. La città vive ore di grande disordine
Il Cairo e i giorni della rivolta
Il racconto di un sequestro: sette ore di tensione
Gli egiziani e la loro vita durante il coprifuoco
GIUSEPPE ACCONCIA
IL CAIRO. Nei giorni dell’insurrezione, il Cairo è una città nuova. Non circolano tante macchine, l’aria è fine. Piazza Tahrir (vuol dire “Liberazione” in arabo) è occupata ininterrottamente dal 25 gennaio. L’umore della piazza all’improvviso si diffonde in tutti i quartieri. Per cui se c’è pace in piazza Tahrir la vita riprende normalmente. Se ci sono scontri con ex poliziotti, le bande armate reagiscono fino ad Heliopolis. Se si avviano battaglie tra pro e anti Mubarak si mobilitano i manifestanti pagati 30 ghinee da Shubra, Faysal e Zeitun. Il Cairo è una città nevrotica e schizofrenica nei giorni di pace e in quelli di guerra. In un istante tutto cambia. L’annuncio che Mubarak non si ricandiderà può essere motivo di grida di protesta per chi lo sostiene come di nuovo fervore per chi lo osteggia. L’intervento dell’esercito può essere festeggiato da chi vorrebbe di nuovo l’ordine e un po’ da tutti gli egiziani che hanno parenti nelle forze armate. E anche se dovesse partire un colpo, come è avvenuto al ministero degli Interni con l’uccisione di vari manifestanti, chi mette in discussione il buon nome delle forze armate non può che essere isolato. Chi c’è in piazza Tahrir? Sicuramente pochissimi esponenti del partito Wafd (liberale) e Tagammu. Il partito comunista non ha partecipato alle prime dimostrazioni, ma singoli militanti sì. E la sede del partito in Talat Harb è stata usata per accogliere i feriti di tutti i fronti. I Fratelli musulmani non monopolizzano di certo la piazza. Sono tra le famiglie che hanno sfilato lo scorso martedì due febbraio o tra i cordoni che assicurano agli scalmanati di rimanere fuori dalla piazza, ma non hanno certo un’area riconoscibile dove far sentire la loro voce. Si vedono qua e là dei salafiti con la barba e la zebiba (il segno della preghiera) che pregano in mezzo alla piazza. I più visibili sono i giovani di Kifaya! e “6 aprile” accampati con le tende. Preparano il tè e da mangiare su fornellini da campo. Si lanciano in danze, cantano canzoni di Oum Kulthum o Sheikh Imam suonando l’oud. Pare che abbiano indicato in Amr Moussa, presidente della Lega araba, il loro rappresentante.
L’ordine pubblico ha iniziato a vacillare nella capitale egiziana e nelle principali città del Paese il 3febbraio. Iscritti al partito di Mubarak hanno avuto l’ordine di rastrellare gli stranieri giovani e i giornalisti, accusati di essere indiscriminatamente simpatizzanti delle proteste. Alcuni stranieri sono stati prelevati dalle loro case e trasportati bendati nelle caserme di Heliopolis. Altri hanno subito il linciaggio delle baltagheia, le bande armate composte prevalentemente da ex poliziotti. Anche io sono stato sequestrato nel quartiere popolare di Shubra insieme ai miei amici Stefano Lazzaro e Francesca Mininel. Avevamo riaccompagnato due colleghi all’Istituto salesiano “Don Bosco” di via Rod El Farag quando un gruppo di giovani dalle facce poco raccomandabili, armati di bastone, spade e catene ha sequestrato il nostro taxi. Ci hanno condotti dall’esercito, dove abbiamo incontrato, seduti in un piccolo camioncino, sei diplomatici australiani. A quel punto c’era poco da scherzare. Ci hanno chiesto di consegnare le batterie e i cellulari per non comunicare all’esterno la nostra  posizione. Abbiamo consegnato tutte le apparecchiature elettroniche e i nostri documenti. «Perché mi guardi? Vuoi farmi una foto?»- ha detto un militare rivolto ad una donna. Prima siamo stati condotti  nella sede dell’esercito ad Heliopolis. Le radio trasmittenti dei diplomatici e alcuni documenti riservati erano sospetti. Ci hanno condotti al ministero dei Servizi Segreti. “Non preoccupatevi andrà tutto bene»- assicurava l’egiziano autista degli australiani. E così lentamente l’atmosfera è cambiata. E nel perfetto stile egiziano i militari hanno iniziato a ridere tra loro. Avevano pensato di doverci arrestare invece iniziavano a capire di aver preso un abbaglio. Ci hanno chiusi in una stanza. Dopo alcune ore hanno detto che gli australiani sarebbero stati rilasciati. «Non andremo via senza gli italiani»- hanno assicurato i diplomatici. E così hanno lasciato andare anche noi. «Perché hai un visto iraniano?», mi ha chiesto uno di loro prima di rinunciare a fare altre domande. «Ero lì in vacanza», ho assicurato. Gli australiani ci hanno portato fino alla Corniche, lasciandoci nei sotterranei della loro Ambasciata. «Andate al Conrad e chiedete di farvi venire a prendere», hanno detto. Di lì a poco è arrivata la telefonata della proprietaria di casa che, concitata, ha riferito: «mi ha chiamato l’esercito dicendomi che ospitate una spia iraniana in casa. Come ho salvato voi ora salvate me! Sono in casa a rovistare dappertutto». A quel punto non c’era nessun posto sicuro per noi. Abbiamo passato la notte al Conrad con lo sguardo su un Nilo insolitamente deserto. All’alba su Al Jazeera (era la prima volta che potevamo guardare la tv), Tariq Ramadan, nipote di Hassan Al Banna, fondatore dei Fratelli musulmani, parlava dell’Islam politico. Alle sette, abbiamo lasciato l’edificio in tutta fretta. Sono trascorse così le nostre ultime ore di coprifuoco. Di notte, le strade del Cairo sono deserte e si sentono gli spari, le urla e i rumori delle transenne spostate dai gruppi spontanei di sicurezza. Ogni tanto passano sporadici gruppi di manifestanti e bande di cani randagi. Durante il giorno la maggior parte dei negozi resta chiuso, aprono solo delle botteghe alimentari che lentamente terminano le scorte. Per giorni tutte le banche e gli uffici pubblici sono rimasti chiusi. Solo nelle ultime ore alcuni bancomat hanno ripreso a consentire prelievi di denaro. I prezzi sono aumentati di giorno in giorno. Il 30% degli egiziani vive con meno di un dollaro al giorno, circa 7 ghinee. E non sono pochi, ma basta un aumento minimo dei prezzi per spezzare questo equilibrio precario. Nella giornata tutti si affrettano a fare acquisti o siedono ai bar. Nelle ore
di coprifuoco tutti restano in casa. Dopo il degenerare delle condizioni di ordine pubblico, la gente comune non lascia mai le proprie abitazioni.
Una delle mattine in cui siamo potuti uscire di casa, il tassista che ci ha accompagnato a Zamalek dove dovevamo fare acquisti necessari per mangiare durante il coprifuoco, ha detto: «A me piace Mubarak. E soprattutto l’esercito. Mio padre, mio fratello e mio zio sono dei militari. Io mi fido solo di loro». Nel bar dell’aeroporto assediato del Cairo, un cameriere mi ha porto due tazze di tè. In una c’era un cucchiaino nell’altra no. Gli ho chiesto il perché. Allora l’uomo ha preso un altro cucchiaino, lo ha messo nella tazza e ha detto: «Mubarak sarà il prossimo!». Nella piazza Tahrir avevamo partecipato agli assembramenti del primo febbraio.  «Speriamo che non siano i salafiti a prendere in mano la situazione»- ha sussurrato Ihab guardando uomini pregare al centro della piazza. «Oggi non c’è lo stesso tipo di persone dei giorni scorsi»- ha aggiunto Riham. «All’inizio qui c’erano giovani studenti universitari e gente di cultura. Ora ci sono uomini e donne di tutte le classi sociali. E brutte facce, forse ex poliziotti o ex detenuti che hanno lasciato le carceri di Maadi e Shubra». Un ragazzo si è avvicinato a me e mi ha chiesto: «E’ questa la libertà?», guardava piazza Tahrir e tutti i manifestanti. Nella grande manifestazione del due febbraio sono giunte in piazza forse 2 milioni di persone.
L’oscuramento di internet e delle linee telefoniche ha reso le prime notti di coprifuoco insolitamente lunghe. Ma dal 3 febbraio tutto ha ripreso a funzionare. Anche il nostro umore è stato influenzato dall’atmosfera della piazza dalla quale si vede ancora il fumo dell’incendio dell’edificio della sede del partito di Mubarak. Mentre il nuovo governo avvia il dialogo con le opposizioni e tenta di portare tutto alla normalità, la gente è ancora in piazza Tahrir.

Dal primo giorno di manifestazione, Piazza Tahrir è il simbolo della protesta egiziana. Gli attivisti e la gente comune animano di giorno e di notte il centro del Cairo. Ma all’improvviso cambiano le condizioni sul campo e iniziano gli scontri.

Le tappe della protesta
25 gennaio - Prima manifestazione in Piazza Tahrir. Scontri tra polizia e manifestanti, viene indetto il coprifuoco, bloccato internet e la telefonia mobile. El Baradei si prepara a tornare in Egitto.
28 gennaio - Il venerdì della collera. Vengono aperte le carceri. Vengono saccheggiati negozi e centri commerciali. Viene assaltato il Terminal 3 dell’aeroporto. La Polizia si scioglie. Arriva l’esercito in piazza e per le strade del Cairo. Viene incendiata sede del partito di Mubarak.
1 febbraio - Manifestazione di due milioni di persone in Piazza Tahrir. La Rivoluzione dei milioni. Partecipano alle manifestazioni i movimenti Kifaya, “6 aprile”, i Fratelli musulmani e gente comune.
2 febbraio - Mubarak annuncia di non ricandidarsi. Iniziano le manifestazioni pro e anti Mubarak. Viene avviata dal PND la caccia agli stranieri e ai giornalisti.
7 febbraio - Ancora manifestazioni di piazza. Il vicepresidente avvia il dialogo con attivisti e Fratelli musulmani. La vita riprende lentamente.

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