lunedì 31 ottobre 2011

Lettura critica di Narda Fattori

Giuseppe Acconcia è l’autore di Un inverno di due giorni e altri racconti, ancora prosa, complessa e fluida, come dice nella presentazione Stefano Martello, aggiungerei magmatica e urgente, sovrabbondante. È una prosa che accoglie nello sguardo l’esperienza per trarne il significato che cela e che svela. Il migrante che sbarca beve le immagini, sente il dolore della perdita e l’estraneità di lunghi elenchi di merci, di insegne, di un italiano che si impara ma non si capisce, ottuso e ripetitivo. Ogni sogno si infrange contro la realtà brutale di un lavoro che non c’è, di un amore, di una casa che non esistono, sopravvivenza demandata alla Caritas, la certezza di vivere una vita senza… e allora forse è meglio morire. Il racconto che riguarda gli extraterrestri mi sembra il più coeso perché non cerca scappatoie in prolessi e analessi, ma narra di fatti su un asse temporale unico. Gli extraterrestri che sembrano aver trovato la strada per una serena convivenza attraverso una comune di pari, non suscitano alcun interesse, sono stranieri , estranei quindi indegni di soffermarsi sulla loro cultura. Ancora una volta riconosciamo l’interesse dello scrittore per le relazioni e per l’incapacità di accogliere l’altro, anzi come Cronos, il tempo, divora i suoi figli, siamo ridotti ad ologrammi, parvenze. Ma Acconcia procede oltre nel leggere le capacità autodistruttive dell’uomo: anche quando la Terra si sgretola e si fa poltiglia di fango, riescono a pensare solo a limitare le nascite. Quando parla di quotidianità e di esperienze che gli sono familiari, Acconcia riesce a dare alla scrittura forza e chiarezza; si spoglia delle sovrastrutture letterarie non perfettamente entrate ancora nel suo patrimonio di giovanissimo scrittore e narra con scioltezza, non annoda la scrittura in acconci presunti stilemi. I suoi protagonisti sono emarginati, migranti, precari, o sognatori, creature inverosimili che traggono dalla fantasia l’unico nutrimento.

domenica 30 ottobre 2011

Un inverno di due giorni e altri racconti, Fara editore

Sette Autori
Pubblica con noi 2007
racconti e poesie vincenti
€ 15,00 pp. 378 (Sia cosa che)
ISBN 88-95139-08-9

La raccolta Padri della terra ha vinto il Prata Poesia 2008

Questo libro contiene le opere vincitrici della VI edizione del concorso Pubblica con noi. I giurati Mary Leela Peverelli, Marco Bottoni e Stefano Martello per la sezione Racconto; Antonella Pizzo, Angelo Leva, Massimo Pasqualone e Massimo Sannelli per la sezione Poesia;
Alessandro Ramberti in qualità di segretario hanno così deliberato:

Per la sezione racconto

1° Il paradiso è un cul-de-sac di Camilla Jagna Ugolini Mecca: “La storia: una ferita che viene rimarginata in quello che è un primo sguardo.” (M.L. Peverelli)



(foto Joe Oppedisano)

Camminare per le strade di Parigi è un privilegio assoluto. Toni ne fa buon uso, senza saperlo. Così gli accade che ai suoi passi si accompagnino memorie dense, fi siche, riconsiderate dopo anni sulla spinta degli sguardi rinnovati di Nicole. Ma ogni ricordo riemerso prevede uno scambio. Lui lo onora lasciandole in dono le proprie domande. E la narrazione scova lei mentre, accolto l’invito, sa imparare a trasformarle in uno specchio. Il racconto non è che un modo per accompagnare il tempo in cui due esseri si trovano ad essere ancora prossimi. Se è vero che la scrittura se la intende con l’utopia, la visione che vorrebbe farsi avanti è quella in cui un incontro autentico fra i generi possa realizzarsi e ne sia matrice un luogo vasto, ibrido, che renda evidente quanto l’esistenza sia fatta di materie difformi, che possono convivere senza elidersi. Un luogo che resta rispettosamente sullo sfondo, maternamente vigile, a guardare cosa accade quando si prova a dare nome e respiro alle cose. (Camilla Jagna Ugolini Mecca)

2° La misura quotidiana delle parole di Oreste Bonvicini: “… una attenzione decisa per ogni singola parola.” (S. Martello); “… appunti di viaggio che svelano la migranza in ognuno di noi…” (M.L. Peverelli)



La misura quotidiana delle parole, ovvero letteratura di confine.
Ma il confi ne è insito nel viaggio: non per forza di nazioni o di continenti, bensì di terre e mari, di fiumi che dividono, di monti che separano, di giorni che non potranno ritornare, che non si potranno più riattraversare: il tempo. Ci illudiamo, viaggiando, di portare con noi idee e pensieri originali. Di rieducare il nostro pensiero su schemi nuovi, diversi, lontani e per questo sconosciuti, favoriti dal contatto con realtà non abituali. In realtà scrivere è di per sé esercizio che richiede il superamento
di ogni possibile confine, imposto o apparentemente invalicabile affi nché sia valicato e valicato ancora. Ma illudendoci dell’esclusività, che diremo della ripetitività del pensiero? (Oreste Bonvicini)

3° Un inverno di due giorni e altri racconti di Giuseppe Acconcia: “Una scrittura complessa e fluida al contempo che esplora temi sociali, riportando un quotidiano (troppo invasivo per essere ricordato o per ragionarci sopra) ad una dimensione di disagio e di dequalificazione della dignità…” (S. Martello)



Un inverno di due giorni e altri racconti è parte di una raccolta di testi sul presente dove la Tecnica vince sull’uomo, migranti e lavoratori vivono da oppressi, le cause degli eventi vengono confuse, il movimento nello spazio disorienta, il tempo inghiotte e si acuiscono i disturbi di relazione. Nella Roma dello 06 chi scrive incontra il disagio dell’apolidia e la rabbia della conservazione. Raccoglie le parole di ragazzi giunti dall’Africa a Lampedusa e li confonde con i suoi pensieri. Individua i momenti dell’esistenza. Impara dai suoi errori a definire il carattere dei giorni. I piccoli testi indicano pensieri riprodotti
perché il tempo costringe chi scrive a formare nuovi intrecci ed a capire vere necessità. La rappresentazione in immagini tormenta la sua coscienza che vorrebbe essere libera da legami innaturali e vicina a quella di uomini e donne primitivi. Perché Sisifo è minuscolo, bugiardo, ma ancora vivo! (Giuseppe Acconcia)

2008

sabato 29 ottobre 2011

Scheda sulla crisi siriana, Camera dei deputati

§ G. S. Frankel, Un nuovo Medioriente, in: Il Mulino, 1/2011 43

§ M. Emiliani, Il terremoto mediorientale, in: Il Mulino, 2/2011 43

§ V. Giannotta, Ankara e la sfida siriana, in: www.aspeninstitute.it, 28 aprile 2011 43

§ S. Torelli, La crisi in Siria: ripercussioni regionali, rischi interni e posizioni internazionali, in: ISPI Commentary, 3 maggio 2011 43

§ E. Dacrema, Siria: il ‘punto di non ritorno’, in: www.equilibri.net, 4 maggio 2011 43

§ B. Gwertzman, Behind Syria’s Crackdown, in: www.cfr.org, 10 maggio 2011 43

§ E. Abrams, 7 Theories to Explain Failed U.S. Policy in Syria, in: www.cfr.org, 11 maggio 2011 43

§ I. Bilancino, Turchia-Siria: la situazione in Siria rischia di rovinare l’equilibrio, in: www.equilibri.net, 13 maggio 2011 43

§ G. Galeno, Siria, assedio al regime, in: www.affarinternazionali.it, 25 maggio 2011 43

§ D. Jerome, Responding to Syria’s Aggression, in: www.cfr.org, 13 giugno 2011 43

§ B. Gwertzman, The Degrading of Syria’s Regime, in: www.cfr.org, 14 giugno 2011 43

§ A. Monjed, R. Ziadeh, N. Ghadbian e N. Shehadi, Envisioning Syria’s Political Future – Obstacles and Options, in: www.chathamhouse.org.uk, 14 giugno 2011 43

§ J. M. Sharp, Syria: Issues for the 112th Congress and Background on U.S. Sanctions, in: www.crs.gov, 21 giugno 2011 43

§ P. Sasnal, Unrest in Syria: Political Forces and Scenarios, in: PISM Bulletin n. 67, 22 giugno 2011 43

§ D. Jerome, Syria’s Challenge to US and EU, in: www.cfr.org, 27 giugno 2011 43

§ D. Jerome, Syrian Regime’s Unsteady Hand, in: www.cfr.org, 6 luglio 2011 43

§ International Crisis Group, Popular Protest in North Africa and the Middle East (VI): The Syrian Peoples’s Slow Motion Revolution, in: Middle East/North Africa Report n. 108, 6 luglio 2011 43

§ International Crisis Group, Popular Protest in North Africa and the Middle East (VII): The Syrian Regime’s Slow-motion suicide, in: Middle East/North Africa Report n. 109, 13 luglio 2011 43

§ G. Acconcia, La doppia verità siriana: tra primavere arabe e propaganda di regime, in: ISPI Commentary, 14 luglio 2011 43


§ L. Gambardella, Siria: il sospetto piano nucleare di Damasco e le sue implicazioni politico-strategiche nella regione mediorientale, in: www.equilibri.net, 18 luglio 2011 43

§ S. Lasensky e L. Woocher, Mass Atrocities in Syria: the International Response, in: www.usip.org, 25 luglio 2011 44

§ C. Finelli, Siria-Libano: il sistema di equilibri mediorientali alla prova della primavera araba, in: www.equilibri.net, 29 luglio 2011 44

§ S. Shaikh, In Syria, Assad Must Exit the Stage, in: www.brookings.edu, 1° agosto 2011 44

§ O. Taspinar, Zero Problems With This Syria?, in: www.brookings.edu, 1°agosto 2011 44

§ S. R. Grand, Mr. Assad: Tear Down You Police State, in: www.brookings.edu, 1° agosto 2011

venerdì 28 ottobre 2011

La doppia verità siriana: tra primavere arabe e propaganda di regime

Le rivolte in Siria toccano ormai l’intero paese. Il regime ha risposto con una dura repressione che, secondo le stime degli attivisti, da metà marzo ha causato più di 1.300 morti. L’immagine delle migliaia di piazza Al-Aassi a Hama ha evocato le rivolte egiziane. E così anche in Siria, i carri armati dell’esercito controllano le vie di accesso delle principali città. Tuttavia, nonostante rare defezioni, le forze armate sono con il presidente Bashar al-Assad e questo frena non poco i
movimenti. Solo la crisi economica e l’organizzazione dell’opposizione potrebbero costringere al- Assad alle dimissioni. D’altra parte, versioni contrastanti sull’uso della violenza, sul numero di profughi che hanno oltrepassato i confini (secondo l’agenzia di stampa turca Anadolu, sono stati 12.000 i profughi siriani che hanno raggiunto il sud della Turchia in seguito all’intervento
dell’esercito nella città di Jisr al-Shogur a partire dal 13 giugno scorso) e sui militari morti, tra
movimenti di opposizione e stampa filogovernativa, complicano un’univoca lettura della crisi.
L’economia siriana è sull’orlo del collasso. Finché la lealtà ad al-Assad della borghesia e dei
commercianti di Damasco e Aleppo sarà mantenuta, il regime sembra al sicuro. Ma poiché le
rivolte in Siria stanno danneggiando duramente il commercio, il settore manifatturiero e il turismo, crescono le probabilità che la classe media si unisca ai poveri di Daraa e Homs che hanno dato il via alle manifestazioni. Il Fondo monetario internazionale ha rivisto la crescita siriana dal 5,5% al 3% nel 2011, mentre la Banca centrale di Damasco rischia di fronteggiare una grave diminuzione nelle riserve monetarie. E come se non bastasse si sono aggiunte le sanzioni dell’Ue alla classe dirigente del partito Baath di al-Assad e alle banche siriane. Mentre gli Stati Uniti potrebbero intervenire con sanzioni mirate ai settori petrolifero e del gas. Le tensioni con Francia e Stati Uniti sono ancora più forti in seguito agli assalti di attivisti pro Assad alle ambasciate dei due paesi a Damasco.
D’altra parte, l’opposizione è ancora divisa e frammentata. Socialisti, comunisti, partiti curdi, Fratelli musulmani, blogger, esponenti della società civile tentano di definire un programma comune. Si sono riuniti a Mosca, Ankara, Londra e rifiutano il dialogo con il regime. Avevano provato ad organizzarsi nel 2000, quando al-Assad, salito al potere dopo la morte del padre, aprì una breve stagione di riforme politiche. E così nel 2005, i gruppi di opposizione presentarono la Dichiarazione di Damasco, nella quale si chiedeva la cancellazione della legge d’emergenza in vigore dal 1963, il rilascio dei prigionieri politici, il ritorno degli esiliati e diritti per la minoranza curda. Nonostante ciò, I gruppi di opposizione siriana sono stati meno incisivi e determinati dei movimenti egiziani nati tra il 2005 e il 2008.
Il partito Baath ha sempre usato il tema del mantenimento dell’unità nazionale per garantire la
laicità dello stato contro le rivendicazioni dell’islamismo politico. E così i cristiani siriani non hanno sin ora partecipato alle manifestazioni e temono l’ascesa di partiti di emanazione dei Fratelli musulmani. D’altra parte, si rafforzano le spinte indipendentiste dei curdi (che rappresentano il 5% della popolazione e vivono nel Nord-Est del paese) e delle tribù beduine che sono state coinvolte nelle manifestazioni del 10 giugno scorso (le 16 tribù principali costituiscono l’11% della popolazione siriana). Mentre bande di criminali e attivisti pro Assad percorrono le strade siriane impaurendo con furti e saccheggi la popolazione. Ma il timore di molti è che la caduta di Al-Assad possa riaccendere il conflitto israelo-palestinese e determinare una dura reazione di Teheran. Per questo i presidenti russo, Dmitrij Medvedev, e turco, Recep Erdoğan, e persino i leader cinesi spingono il presidente siriano a riforme concrete, ma non mettono in discussione la tenuta del regime. Anche il movimento sciita libanese Hezbollah e il governo iraniano continuano a sostenere il presidente siriano. La partita è nelle mani di al-Assad che dovrà decidere se aprire una fase di riforme che limiti l’azione di repressione dell’esercito per mantenere in vita il regime oppure continuare con un uso eccessivo della violenza che destabilizzi definitivamente il paese.

Giuseppe Acconcia
Ispi, 2011

mercoledì 26 ottobre 2011

Revolutionary Youth


The youth who made the Revolution

Egyptian young revolutionaries inspired the Arab spring youth. They occupied streets and squares in Cairo, Alexandria and Suez, they were arrested and tortured. But now they have to face politics. And divisions among activists come out. They are socialists, liberals, bloggers, Muslim Brothers. They shared innovative methods of peaceful fight for a common target: to fire Hosni Mubarak, the former Egyptian president who risks the capital punishment for ordering to shoot on demonstrators, and his system of power. The next September Parliamentary elections are near. Egypt is a laboratory of a renewed political life. Every young Egyptian forms his political view dealing with the Council of Armed forces or going back to Tahrir for new ‘’Fridays of anger’’. The road towards a democratic transition in Egypt is fright with obstacles for the young revolutionaries. Last June the 29th, hundreds were injured among relatives of people killed during the Revolution. After that, the Coalition of Youth went back to Tahrir asking that the marshal Mohammed Tantawi, head of the military junta, stepped down. ‘’6 April’’, a liberal ngo, Kifaya!, movement founded in 2005, witch means ‘’That’s enough!’’, and socialists decided to start from the 8 of July a permanent sit-in in Tahrir. Liberals and Muslim Brothers joined them to present again revolutionary requests: more jobs, better salaries, a welfare State, rights of citizenship, for women and minorities. However each young activist has his one personal target ranging from a more liveable city to a country freed from corruption, from a better education system to the creation of secular parties. But the path towards democracy is still long and dangerous. Demonstrators continue asking for a new Constitution, while the dates of September and November for next Parliamentary and Presidential elections appear uncertain. For these reasons, many activists warned that even free elections could be not enough for a return to stability.

Giuseppe Acconcia e Francesca Leonardi
The Independent, 2011

mercoledì 19 ottobre 2011

Hezbollah: tra resistenza armata e partecipazione politica

Il recente conflitto israelo-libanese ha reso protagonista il movimento sciita libanese Hezbollah ed il suo leader Hasan Nasrallah. In questa scheda si ricostruisce il ruolo della comunità sciita nel sistema confessionale post-coloniale libanese, la nascita e l’evoluzione di Hezbollah sino alla partecipazione alle elezioni politiche del 1992 e al dialogo nazionale successivo al ritiro siriano. Si tenta, poi, di far luce sui legami ideologici di Hezbollah con i gruppi sciiti della regione e di ricostruire la strategia armata del movimento. Il nuovo conflitto israelo-libanese riapre, infine, gli irrisolti quesiti sul futuro del Libano e del sistema confessionale.



La nascita di Hezbollah

Negli anni in cui il Libano ottenne l’indipendenza dal mandato francese, il sistema confessionale stabilito dal Patto Nazionale del 1943 concesse poco spazio alla comunità sciita libanese. Mentre il presidente del nuovo stato libanese sarebbe stato scelto tra i cristiano-maroniti ed il primo ministro tra i musulmani-sunniti, i musulmani-sciiti avrebbero ottenuto la sola carica di presidente del Parlamento. Più in generale, il sistema confessionale prevedeva un meccanismo per cui i cristiani-maroniti avrebbero ottenuto tanto in Parlamento quanto nelle cariche di governo in ogni caso la maggioranza, nonostante l’intera comunità musulmana e druza contasse già una popolazione superiore rispetto alla componente cristiana. In particolare, secondo il censimento del 1932, la comunità sciita libanese rappresentava già allora il 20% della popolazione del paese ed era collocata nella valle della Bekaa, nelle regioni meridionali e nella periferia del sud di Beirut. Lo stato di arretratezza di queste terre rispetto alle regioni settentrionali e alla città di Beirut sembrava particolarmente grave in un contesto di generale disparità sociale e di gestione del potere da parte di elite terriere delle varie comunità di appartenenza.


Da una parte, l’urbanizzazione e la modernizzazione del paese, favorite dalle riforme avviate dal presidente Shihab (1957-1964) che intaccavano il vecchio sistema elitario e, dall’altra, le guerre israelo-arabe del 1948 e del 1967 determinarono un processo di rapida politicizzazione della comunità sciita libanese. Le prime rivendicazioni degli sciiti libanesi vennero da alcuni mullah, ex studenti delle città di Qom in Iran e Najaf in Iraq. Infatti, Musa al-Sadr, insegnante di diritto islamico della città di Qom, fondò nel 1969 l’“Alto Consiglio degli sciiti” per lo sviluppo della comunità sciita libanese, per sostenere la resistenza palestinese e per una sempre più ampia partecipazione politica in favore delle classi sociali sfavorite dal sistema confessionale. Questo gruppo confluì nel 1975 nel movimento politico Amal (Brigate della Resistenza Libanese) guidato sempre da Musa al-Sadr.


Da una parte, la Rivoluzione islamica iraniana del 1979, dall’altra, le invasioni israeliane del Libano del 1978 e del 1982 favorirono l’organizzazione di questi movimenti in gruppi di resistenza armata. Si stabilirono contatti continui tra Amal nel sud del Libano, Al-Dawa e gli sciiti irakeni delle città di Najaf e Kerbala ed i gruppi sciiti della resistenza iraniana uniti dalla leadership carismatica di Khomeini. Nel 1979, quadri radicali di Amal, tra cui Hasan Nasrallah, attuale segretario generale di Hezbollah, e Abbas al-Musawi, trasferitosi dall’Iran nella regione della Bekaa, fondarono il “Comitato di supporto alla Rivoluzione islamica”, nucleo originario di Hezbollah, il partito di Dio. Tufayli fu il primo segretario generale del movimento, ispirato alla leadership carismatica degli ayatollah Khomeini e Fadlallah, due tra le maggiori fonti di ispirazione ideologica dell’Islam sciita.



Dalla guerra civile agli accordi di Taif (1975-1989)

Nel 1948 in Libano erano presenti 150.000 profughi palestinesi. Il numero è andato crescendo rapidamente in seguito ai nuovi rifugiati prodotti dal conflitto arabo-israeliano del 1967, dal “settembre nero” del 1970, quando la Giordania attaccò duramente i campi profughi palestinesi presenti sul suo territorio e per crescita demografica. Nei primi anni ’70, i campi profughi palestinesi nei dintorni di Beirut e nel sud del Libano ospitavano così circa 300.000 palestinesi. La presenza di palestinesi sunniti metteva in discussione il sistema confessionale libanese. In più si trattava di una comunità molto politicizzata. Dopo la creazione dell’Olp nel 1964 i campi libanesi divennero, infatti, luoghi di addestramento militare e dal 1968 basi per operazioni contro Israele.


Nel 1975 scoppiò la guerra civile libanese. Le comunità libanesi si scontrarono sulla libertà d’azione palestinese. I palestinesi ebbero il sostegno di Hezbollah, Amal e del Movimento Progressista del druzo Walid Jumblat mentre i cristiano maroniti ed i gruppi armati vicini al Partito Falangista e a Samir Geagea cercarono di limitare le azioni palestinesi.


Gli interventi di Israele e Siria contribuirono ad acuire lo scontro interno e ad inasprire le divisioni interconfessionali. Da una parte, la prima invasione israeliana del 1978 ed i terribili massacri dei campi profughi palestinesi di Sabra e Shatila, durante la seconda invasione del 1982, rafforzarono la resistenza armata dei gruppi sciiti, sunniti e druzi. Dall’altra, l’intervento siriano nella guerra civile libanese fu, in un primo momento, a favore delle comunità musulmane sciite e sunnite, in un secondo, a favore dei cristiano maroniti per equilibrare le forze sul campo e limitare l’influenza israeliana presso questa comunità.


D’altra parte, la comunità sciita libanese prese strade distinte. Da una parte, Amal ed il suo leader Nabih Birri, attuale presidente del Parlamento, parteciparono per la prima volta al governo libanese, dall’altra, Hezbollah si affermò come maggiore forza di opposizione armata grazie alla formazione nel febbraio del 1985 della Resistenza Islamica, ala militare del movimento. Inoltre, Hezbollah consolidò la sua struttura organizzativa. Venne formato, infatti, un Consiglio consultivo composto da sette membri a cui si aggiunsero vari Consigli regionali. Hezbollah ottenne finanziamenti e sostegno militare dalla nascente Repubblica Islamica d’Iran e dal regime baathista siriano.


Gli accordi di Taif dell’ottobre del 1989, appoggiati da Stati Uniti, Siria ed Arabia Saudita, avviarono il conflitto civile libanese verso una soluzione. Gli accordi prevedevano un’uguale rappresentanza per cristiani e musulmani in un Parlamento allargato ed una riduzione dei poteri del presidente a favore del primo ministro e del presidente del Parlamento. Legittimavano, inoltre, la presenza siriana in Libano permettendo ad Hezbollah di mantenere in vita la componente armata. Nonostante ciò Hezbollah guardò con sospetto agli accordi di Taif definendoli “una timida riforma che non tocca la sostanza dei privilegi del sistema confessionale”, […] “una ripetizione dell’errore storico del 1943, il fattore principale che ha determinato la disintegrazione e la distruzione dello stato libanese”.


Nel 1990 è stata approvata la nuova Costituzione libanese sulla base degli accordi di Taif mettendo fine a 15 anni di guerra civile ed avviando il paese alle prime elezioni dopo più di venti anni.



Dalla partecipazione politica al ritiro siriano

Nel 1991 Al Musawi è stato nominato segretario generale di Hezbollah. Egli ha avviato un processo di apertura alla partecipazione politica del movimento. Nel febbraio del 1992 Abbas Musawi, sua moglie e suo figlio sono stati assassinati da un attacco mirato dell’esercito israeliano. Subito dopo, Hassan Nasrallah è stato nominato segretario generale di Hezbollah. Nel 1992 Hezbollah ha partecipato alle prime elezioni dopo la guerra civile. Il programma politico del movimento prevedeva la liberazione del Libano dall’occupazione israeliana, l’abolizione del sistema confessionale, una nuova legge elettorale più rappresentativa delle divisioni della popolazione, libertà politica e dell’informazione, riforme sociali ed amministrative. E’ stato avviato, poi, un dialogo stabile con le altre comunità libanesi. E’ stata aperta la TV al-Manar e sono stati intensificati i contatti con Israele per lo scambio di prigionieri detenuti nelle carceri libanesi ed israeliane. Alle elezioni parlamentari del 1992 Hezbollah ha ottenuto otto seggi a cui devono esserne aggiunti quattro di gruppi alleati. Questi numeri gli hanno permesso di essere il maggior gruppo del nuovo Parlamento libanese. Alle elezioni del 1996 Hezbollah ha ottenuto nove seggi, due dei quali di gruppi alleati. Nel 1997, la dimensione nazionale del movimento ottenuta grazie alla partecipazione politica è stata rafforzata con la formazione delle Brigate libanesi multiconfessionali, composte dall’ala armata di Hezbollah e da soldati delle altre comunità libanesi.


D’altra parte nel 2000, il primo ministro israeliano, Ehud Barak ha disposto il ritiro israeliano unilaterale dal sud del Libano lungo un confine arbitrario, “blu line”, ma ad eccezione delle fattorie di Sheeba. Si tratta di una fetta di territorio libanese di 45 km², secondo le autorità israeliane parte delle alture del Golan e quindi territorio siriano. Secondo dichiarazioni delle autorità siriane, le fattoria di Sheeba appartengono al Libano. Tuttavia, l’occupazione israeliana di questo piccolo territorio ha permesso ad Hezbollah di considerare non conclusa la lotta contro l’occupazione israeliana.


Alle prime elezioni politiche dopo il ritiro israeliano nel 2000, Hezbollah ha ottenuto 12 seggi ed il più alto numero di voti nel paese. Hezbollah ha ottenuto, poi, importanti affermazioni alle elezioni municipali del 1998 e del 2002 confermando il suo radicamento sul territorio.


La Risoluzione 1559 del settembre del 2004 ha disposto “il ritiro delle truppe straniere dal Libano ed il disarmo delle milizie libanesi e non”. Inoltre, l’assassinio dell’ex primo ministro Hariri nel febbraio del 2005 ed i sospetti di un coinvolgimento siriano hanno spinto la popolazione libanese a chiedere con forza il ritiro siriano dal Libano. Anche Hezbollah ha organizzato manifestazioni parallele di cordoglio per la morte di Hariri brandendo bandiere libanesi. Il successivo ritiro siriano è stato salutato da Hezbollah con manifestazioni di “gratitudine” verso al Siria e le richieste al governo libanese di mantenere stabili contatti con quel paese.


Alle elezioni politiche del 2005, Hezbollah ha ottenuto 14 seggi. E’ stato nominato primo ministro Fouad Siniora, vicino all’ex primo ministro Hariri, appoggiato dal “fronte del 14 marzo”, movimento nato sulla scia delle manifestazioni dell’anno precedente e sostenuto da cristiani, sunniti, druzi e dalla comunità internazionale, primi fra tutti Stati Uniti ed Unione europea. “Il fronte” ha ottenuto un’ampia maggioranza parlamentare nonostante l’assenza di una rete organizzativa consolidata. Inoltre, in seguito al ritiro siriano, è rientrato in Libano il generale Michel Aun, uno dei protagonisti della guerra civile, leader del governo militare formato nel 1988 ed allontanato dal paese nel 1990. Questi ha fondato il Partito per le Riforme ed il progresso, appoggiando Hezbollah ed ottenendo un buon successo elettorale. D’altra parte, lo stesso Siniora ha manifestato aperture verso Hezbollah e non ne ha domandato il disarmo. Hezbollah è entrato a far parte così del nuovo governo di unità nazionale con il Ministro del lavoro Hamadè, ed il Ministro dell’energia, Fnaysh. In seguito al ritiro siriano, la divisione in un fronte pro-siriano, guidato da Hezbollah, ed uno anti-siriano, composto da cristiani, sunniti e druzi, è stato apparentemente superato. Si sono creati i presupposti per un dialogo nazionale con lo scopo di riformare il sistema confessionale dai risultati ancora incerti.



Hezbollah: ideologia e prassi politica

Hezbollah fa del nazionalismo libanese e della lotta alle disuguaglianze sociali punti essenziali di lotta politica. Hezbollah, come movimento autenticamente libanese, si è affermato soprattutto in seguito alla fine della guerra civile libanese e alla morte di Khomeini. In realtà, l’uniformità ideologica tra Rivoluzione islamica iraniana e Resistenza islamica libanese è stata gradualmente messa in discussione sin dalla fine degli anni ’70 per le peculiarità dello stato libanese.


Tuttavia, fino alla scomparsa di Khomeini, il discorso politico del movimento libanese è quasi completamente sovrapponibile con l’ideologia islamica rivoluzionaria. Uno dei punti in comune tra Hezbollah, khomeinismo e altri gruppi sciiti operanti nella regione è la dura e completa opposizione all’occupazione israeliana della Palestina. A questo si aggiunga, da una parte, l’opposizione agli Stati Uniti come forma di lotta più generale al colonialismo ed al sionismo. Dall’altra, una dura critica del marxismo e dei movimenti di ispirazione socialista. Questi gruppi sciiti appoggiano, invece, la formazione di uno stato islamico sul modello iraniano di velayat-e faqih. Esiste, poi, una retorica anticoloniale propria di Hezbollah di opposizione ai cristiano-maroniti e alla presenza francese in Libano che è molto importante nei primi anni di esistenza del movimento.


Con la fine della guerra civile, gli accordi di Taif, sebbene salutati con scetticismo, permettono ad Hezbollah di mantenere in vita la componente armata del movimento. Inoltre, la morte di Khomeini e la lotta interna alle fazioni delle città sante sciite di Qom, Mashad in Iran e di Najaf e Kerbala in Iraq che porta alla nomina di Khamene’i come Guida Suprema contribuiscono alla trasformazione ideologica del movimento libanese. Sebbene Hassan Nasrallah manifesti pubblicamente la propria vicinanza ideologica al nuovo leader iraniano, la formazione di uno stato islamico sembra scomparire dagli obiettivi del movimento. Anzi l’infitah ovvero l’apertura alla partecipazione politica, promossa dal partito implica, da una parte, il confronto diretto con l’occupazione israeliana del Libano e, dall’altra, l’integrazione politica e la partecipazione elettorale.


La partecipazione alle elezioni del 1992 definisce Hezbollah come forza di dialogo e cooperazione con le altre comunità confessionali libanesi. L’ala armata del movimento dichiara, poi, conclusa la lotta armata nelle aree interne del paese. Hezbollah esprime una dura opposizione al sistema confessionale per una più equa distribuzione delle forze parlamentari. La “normalizzazione” del movimento porta, inoltre, all’inclusione di cristiani e sunniti tra gli eletti nelle liste del movimento e alla formazione delle Brigate libanesi multiconfessionali.


Hezbollah negli anni ’90 appare un movimento completamente autonomo dalla Rivoluzione islamica e dalla leadership iraniana impegnato in una più generale politica di secolarizzazione. Mutano gli slogan. Non più “la Rivoluzione islamica in Libano” ma la “Resistenza Islamica in Libano”, il giornale settimanale cancella, poi, i volti di Khomeini e Khamene’i, infine, tutti i simboli religiosi sciiti nelle aree cristiane vengono rimossi.


Non solo Hezbollah non si propone come alternativa allo stato libanese ma diviene una forza di modernizzazione e di riforma. Prima di tutto, Hezbollah propone riforme economiche ed amministrative sostanziali. Il movimento si batte per far riconoscere maggiori autonomie alle municipalità al fine di migliorare servizi sociali ed educativi. Propone un piano generale di riforme economiche contro la corruzione, l’inefficienza e per lo sviluppo delle aree periferiche di Beirut e della Beka. L’opposizione tra “oppressi e oppressori” viene efficacemente promosso come slogan politico. Inoltre, l’uso di reti civili e ong locali per superare le disuguaglianze sociali dovute al sistema confessionale libanese conferiscono ad Hezbollah un nuovo volto politico.


Hezbollah, oggi, appare un movimento sciita libanese con un’ideologia politica ed una strategia autonome rispetto ad altri movimenti sciiti in Medio Oriente. Sebbene sia la Siria che l’Iran sostengano Hezbollah con finanziamenti ed infrastrutture, questo agisce in una logica di completa indipendenza d’azione.


Tuttavia, il Medio Oriente ridisegnato dalle guerre statunitensi contro Afghanistan (2001) ed Iraq (2003) ha rafforzato i legami tra i gruppi sciiti della regione. Si è così riproposta l’alleanza tra sciiti libanesi, sciiti irakeni ed il nuovo messaggio iraniano rivoluzionario rafforzato dall’aumento del prezzo del petrolio e dai discorsi radicali del presidente Ahmadinejad. Tutto ciò, in un contesto più generale di nuovo vigore anche per gruppi legati all’Islam sunnita. In particolare, l’importante affermazione dei Fratelli musulmani in Egitto, la vittoria di Hamas in Palestina ed i risultati delle consultazioni in Arabia Saudita e Bahrein sono segni di una generale rinascita di movimenti di ispirazione religiosa in Medio Oriente.



Hezbollah e il terrorismo

Il primo attacco suicida di Hezbollah è del 1982. Ahmad Qasir si fece esplodere nel quartier generale israeliano di Tiro provocando la morte di 76 militari israeliani. Qasir fu considerato un “martire” ed il primo di una serie di attacchi armati contro obiettivi militari israeliani.


Gli Stati Uniti hanno inserito Hezbollah nella lista delle organizzazioni terroristiche del Dipartimento di Stato . Hezbollah viene accusato di aver partecipato agli attacchi all’ambasciata americana nel 1983 e contro il quartiergenerale della forza multinazionale francese a Beirut. Hezbollah è accusato, inoltre, di vari rapimenti di occidentali in Libano, di aver partecipato alla crisi degli ostaggi nell’Ambasciata degli Stati Uniti in Iran del 1979 e agli attacchi all’Ambasciata ed al centro culturale israeliano a Buenos Aires nel 1990. L’Fbi pone, poi, Imad Mughnyah, Hassan Izn al-Din, Ali Atwa, presunti affiliati di Hezbollah, nella lista dei ricercati per terrorismo accusandoli di aver partecipato al dirottamento del volo Twa 847 nel 1985.


L'Unione Europea non considera Hezbollah come un movimento “terrorista”. Tuttavia, il Parlamento europeo ha adottato il 10 marzo 2005 una risoluzione, non vincolante, che di fatto accusa Hezbollah di aver condotto “attività terroriste”. Il Consiglio d'Europa ha, poi, accusato Imad Mughiyah di essere membro di Hezbollah e di terrorismo.
L'Onu, la Francia, l'Italia, la Germania e la Spagna, pur esprimendo critiche nei confronti di Hezbollah, non lo considerano una “organizzazione terrorista” e lo hanno riconosciuto come un interlocutore politicamente legittimo.


Tuttavia, non esistono prove che confermino le accuse del Dipartimento di Stato. Fino al 2000, tutte le operazioni armate del movimento sono riconducibili alla resistenza contro l’occupazione israeliana del sud del Libano. Inoltre, dal 1992, anno di partecipazione alle elezioni politiche e di apertura al dialogo nazionale, qualsiasi azione contro le altre comunità confessionali libanesi è stata rimossa dagli obiettivi dell’azione militare del movimento. Dopo il ritiro israeliano del 2000, Hezbollah ha fatto ricorso soprattutto alla cattura di ufficiali e militari per aprire trattative con il governo israeliano per lo scambio di prigionieri.


Pertanto, qualsiasi coinvolgimento di Hezbollah con il terrorismo internazionale appare una forzatura. La strategia armata di Hezbollah punta, infatti, alla distinzione tra una strategia jihadista permessa (halal) ed una proibita (haram). Sono parte della prima gli attacchi armati di resistenza contro la presenza israeliana mentre parte della seconda tutti gli attacchi riconducibili al terrorismo internazionale.


Oggi, l’ala armata di Hezbollah conta, secondo fonti francesi, tra i 500 e gli 800 uomini e tra i 3000 e i 3500 affiliati. Le azioni dell’avanguardia sono soprattutto di guerrilla sebbene esista un arsenale militare di razzi katiusha ed altri armamenti forniti principalmente dall’Iran e dalla Siria.



La nuova guerra israelo-libanese

Il 12 luglio 2006 l’uccisione di otto soldati israeliani e la cattura di due da parte di Hezbollah ha causato un’imprevista reazione israeliana. Il sequestro di militari israeliani rientra in una strategia consolidata del movimento sciita libanese. Sin dall’inizio dell’anno Hasan Nasrallah aveva minacciato il sequestro di militari israeliani qualora non fossero stati liberati almeno alcuni tra i prigionieri libanesi presenti nelle carceri israeliane. Tra questi Samir Canter, attivista comunista rapito nel 1977, Tehya Skaff, druzo arrestato nel 1984 e Passim Nisr arrestato nel 1994, oggetto già nel 2004 di una trattativa fallita con intermediazione tedesca.


In seguito al rapimento del 12 luglio, per più di un mese l’esercito israeliano ha bloccato i confini terrestri, marini ed aerei del Libano e ha bombardato le città di Tiro, Sidone, Dweir, Bafluy, l’aereoporto di Beirut e molti quartieri della capitale, la strada che collega Beirut e Damasco, case, ponti ed infrastrutture civili. Hezbollah ha risposto con lanci di razzi katiusha nelle città israeliane di Haifa, Nahariya, Safed, Nazareth e Tiberiade. L’esercito israeliano guidato dal generale Dan Halutz si è spinto con forze di terra all’interno dei confini libanesi raggiungendo il villaggio di Maroun al Ras sino a Bint Jbeil, teatro di duri combattimenti.


La comunità internazionale, riunita ala Conferenza di Roma del 26 luglio 2006 non ha raggiunto un accordo per il cessate il fuoco immediato del conflitto. Mentre vari governi occidentali hanno sottolineato la “sproporzionalità” della reazione israeliana all’operazione di Hezbollah, gli Stati Uniti hanno sostenuto, invece, il diritto israeliano di difendersi da attacchi terroristici concedendo di fatto ulteriore tempo alla prosecuzione delle ostilità.


Gli obiettivi dell’attacco israeliano sembra siano stati il disarmo di Hezbollah, l’eliminazione della leadership del movimento ed il suo ridimensionamento. Gli attacchi sono proseguiti incessantemente per 34 giorni. In particolare, il 30 luglio 2006 la terribile strage di Cana ha provocato la morte di almeno 37 libanesi. Nei giorni successivi l’esercito israeliano è penetrato in territorio libanese fino ad Aita al Chaab, Haret Hreit e Bir Al-abed mentre veniva proposto dal Ministro della Difesa Peretz, dal capo dell’esercito Dan Halutz e dal primo ministro Ehud Olmert un piano di estensione del conflitto per spingere Hezbollah e le sue milizie a 30 Km a Nord dalla linea del confine libanese.


L’11 agosto 2006 dopo lunghe trattative è stato raggiunto un accordo al Consiglio di sicurezza dell’Onu per l’adozione all’unanimità della risoluzione 1701. La risoluzione fa riferimento alla cessazione completa delle ostilità chiedendo la cessazione immediata degli attacchi di Hezbollah e di tutte le operazioni militari offensive di Israele. La risoluzione, inoltre, afferma che non sono ammesse forze straniere in Libano senza il consenso del suo governo, non è ammessa la vendita o l’offerta di armi e altro materiale al Libano ad eccezione di quello autorizzato dal suo governo, dispone, poi, la consegna alle Nazioni Unite da parte di Israele delle mappe sulla presenza di mine nella regione. Inoltre, si tenta di rafforzare il mandato della missione Unifil, che ha avuto inizio nel 1978 anno della prima invasione israeliana del Libano, passando da una dotazione di 2000 ad una di 15000 uomini.


Il mandato della missione Unifil 2 parla del monitoraggio della cessazione delle ostilità, di accompagnare e sostenere il dispiegamento dell’esercito libanese nel Libano meridionale e lungo la “blu line” ed il ritiro israeliano, di fornire assistenza umanitaria, assistere le forze armate libanesi a stabilirsi tra il confine israeliano ed il fiume Litani in un’area libera da personale armato ed armi diverse da quelle controllate dal governo libanese e dall’Unifil. Tuttavia, il governo libanese non ha chiesto ad Hezbollah di disarmare ma solamente di non mostrare armi in pubblico. D’altra parte, la possibile integrazione dell’ala armata di Hezbollah nell’esercito libanese porrebbe gravi problemi di stabilità dell’esercito stesso composto, secondo fonti militari, già soprattutto da soldati parte della comunità sciita.


L’esercito israeliano ha cessato le operazioni militari offensive il 14 agosto 2006 dopo l’intensificazione dei combattimenti. Il cessate il fuoco è stato rispettato da entrambe le parti ad eccezione di alcuni incidenti.


La guerra ha causato quasi 1200 morti e 4000 feriti libanesi mentre 800.000 persone sono sfollate o hanno lasciato il paese. Israele ha contato 156 morti, 117 soldati e 39 civili. Danni gravissimi, stimati dal governo libanese in 3,5 miliardi di dollari, sono stati inflitti alle principali città ed infrastrutture libanesi. Kofi Annan, segretario generale delle Nazioni Unite, ha accusato Israele di aver usato armi a frammentazione.
Hezbollah ha dichiarato di aver vinto il conflitto e costretto Israele al ritiro. Secondo l’International Crisis Group , in seguito al conflitto il movimento sciita libanese ha aumentato i suoi consensi sia tra le comunità libanesi che nel mondo arabo. Infatti, da una parte, Israele non ha ottenuto i risultati previsti, dall’altra, Hezbollah si è dimostrato capace di mettere in difficoltà l’esercito israeliano. L’opinione pubblica israeliana, quasi unanimemente favorevole allo scoppio delle ostilità, ha espresso dure critiche sull’efficacia delle operazioni del governo Olmert e dell’esercito israeliano che causeranno possibili ripercussioni interne.



Giuseppe Acconcia
affarinternazionali.it

Testi consigliati


The near east since the first world way, Second Edition M.E. YAPP, Longman London and New York (1995)


The shifts in Hizbullah’s ideology, religious ideology, political ideology, and political program, Joseph Alagha, Amsterdam University Press (2006)


Le Hezbollah, méthode, experience, avenir, Naim Qassem (2004)




Siti consigliati


www.crisisgroup.org


www.dailystar.com.lb


www.merip.org

lunedì 17 ottobre 2011

Il movimento riformista iraniano

La vittoria di Ahmadinejad alle elezioni presidenziali iraniane del 2005 ha chiarito il fallimento del movimento riformista iraniano. In realtà si è trattato di un lento processo di intimidazione ed esclusione dai centri del potere che ha reso i riformisti incapaci di ridimensionare il ruolo dei religiosi conservatori nelle istituzioni rivoluzionarie. Tuttavia, Khatami, tra il 1997 ed il 2005, ha appoggiato istanze di modernizzazione della società iraniana con le quali la leadership conservatrice deve confrontarsi.



Rivoluzione Islamica e gruppi politici negli anni ‘90

Nel 1987, l’ayatollah Khomeini, approvò la dissoluzione del partito della Repubblica Islamica, da lui fondato subito dopo la Rivoluzione. Da quel momento la leadership religiosa rivoluzionaria si è divisa in quattro correnti politiche, le uniche ad avere accesso in Parlamento. Sono da inquadrare tutte nel sistema islamico, sostengono l’ideologia rivoluzionaria e la velayat-e faqih, il governo dell’esperto di diritto islamico, massimo risultato della Rivoluzione Islamica. Tuttavia, propongono delle interpretazioni diverse della legge islamica sebbene queste differenti vedute sottendano spesso rivalità personali. In base ad una terminologia consolidata si fa riferimento alla Chap-e eslami (sinistra islamica) alla Chap-e modern (sinistra modernista) alla Rast-e sonnat (destra tradizionale) e alla Rast-e modern (destra modernista).


Il gruppo più rappresentativo della Rast-e sonnat è l’Associazione del Clero Militante (Ruhaniyat Mubarez). Questo gruppo controlla il Consiglio dei Guardiani e l’Assemblea degli Esperti. Inoltre, rilevanti sono le connessioni tra l’ACM e una parte sostanziale dei mercanti del bazar. Il leader del gruppo è l’Ayathollah Mohammad Reza Mahdavi-Kani. Questo gruppo sostiene lo status quo post rivoluzionario e l’appoggio delle classi disagiate tramite forme di solidarietà pietistica; è contrario al pluralismo politico e alla libertà di espressione, è per un’economia chiusa che mantenga i privilegi acquisiti dai mercanti del bazar. Resalat è il quotidiano controllato dal movimento.


La destra modernista (Rast-e modern) ha come gruppo maggiormente rappresentativo i Servi della Ricostruzione. Questa formazione è apparsa sulla scena politica nel 1996 e ha come leader indiscusso Ali Akbar Hashemi Rafsanjani, Presidente della Repubblica Islamica dal 1989 al 1997 e attuale Capo del Consiglio per la Determinazione delle Scelte. Sono definiti “tecnocrati”: perseguono riforme economiche che permettano la modernizzazione del paese, sono sostenuti da uomini d’affari e industriali della classe media. Hamshahri è il quotidiano controllato dal gruppo.


Tra il 1980 ed il 1992 la Chap-e eslami, la sinistra islamica, ha avuto la maggioranza parlamentare. Dopo il 1992 la corrente è stata fortemente osteggiata dai due gruppi di cui sopra. La Società del Clero Combattente è il gruppo più importante. Ne hanno fatto parte: Mohtashemi-Pur e Musavi-Khu’iniha, sostenitori dell’esportabilità della Rivoluzione Islamica e l’ex presidente Khatami. Il leader del gruppo è Kharroubi, ex presidente del Parlamento. Un altro gruppo della corrente è l’Organizzazione dei Mojahedin della Rivoluzione Islamica, fondata nel 1979 ed erede della componente istituzionale dei Mojahedin.


Chap-e modern è l’altra corrente del sistema politico iraniano. Il gruppo di riferimento più forte è l’Unione per la Difesa dei Valori della Rivoluzione Islamica, nato nel 1996 con la guida di Mohammad Mohammadi Rayshahri. Il gruppo propone egualitarismo e repressione dei dissidenti. Gli ayatollah ultraconservatori Dehnamaki e Jannati ne fanno parte. Numerosi sono, inoltre, gli accordi e le cooperazioni con l’Associazione del Clero Militante.



L’ascesa del movimento riformista iraniano

Le due presidenze Rafsanjani (1989-1997) avevano sostenuto alcune aperture economiche e la fine dell’isolamento internazionale. I religiosi conservatori più estremisti venivano trasferiti nelle Fondazioni, nelle forze paramilitari e nel settore giudiziario. Tuttavia, per il basso prezzo del petrolio, la moneta si è gradualmente indebolita causando un forte aumento dell’inflazione tanto che la popolarità di Rafsanjani venne fortemente intaccata.


Nel 1997, il Consiglio dei Guardiani non permise a Rafsanjani di candidarsi per la terza volta alla carica di Presidente della Repubblica. Le elezioni del 1997 hanno registrato una straordinaria partecipazione popolare. L’80% degli aventi diritto si è recato alle urne. Khatami vinse con il 69% dei voti. Solo le province del Lorestan e del Mazandaran avevano visto prevalere Nateq-Nuri rispettivamente con il 52, 5% ed il 51,6% dei voti. Nelle province di Yazd, Busher, Fars, Ilam, Khuzestan, Teheran, Sistan e Balucestan, Khakiluye e Gilan, Khatami aveva ottenuto più del 75% dei voti.


Khatami, filosofo e teologo, studente a Qom, negli anni ‘70 ha sostenuto l’opposizione al regime dello Shah appoggiando Khomeini allora in esilio. Tra il 1978-79, Khatami ha diretto il Centro Islamico ad Amburgo. Con il rientro di Khomeini in Iran, Khatami è divenuto parlamentare. Nel 1982 è stato nominato ministro della cultura ed è stato confermato anche dopo l’elezione di Rafsanjani. Nel 1992, durante il governo Rafsanjani, Khatami ha presentato le sue dimissioni da ministro della cultura, criticando aspramente le restrizioni alla libertà di espressione in Iran. Negli anni successivi ha ricoperto la carica di Direttore della Biblioteca Nazionale di Teheran fino alla candidatura alle elezioni presidenziali del 1997.

“Il nostro movimento crede fermamente nella compatibilità tra religiosità e libertà come tra Islam e democrazia. Il nostro movimento esprime il suo legame con gli ideali autenticamente democratici della Repubblica Islamica. Sostiene i diritti pubblici e incoraggia le libertà fondamentali e le riforme in ogni ambito, dall’economia alla scienza, alle relazioni internazionali. I concetti di religiosità, libertà, indipendenza e progresso della nazione erano nella mente della gente e si erano manifestati nella trionfante Rivoluzione Islamica. Tuttavia, numerosi ostacoli si sono frapposti al raggiungimento di questi obiettivi. Una parte delle richieste legittime della gente non si è concretizzata. Questo ha peggiorato il senso di sconfitta e di fallimento tanto da interiorizzare l’idea che mai le richieste della gente si sarebbero trasformate in fatti”. (Khatami: dichiarazioni della campagna elettorale del 1997)



Il primo governo Khatami

Il primo governo Khatami era in continuità con i suoi predecessori. Infatti, cinque ministri del governo Rafsanjani venivano confermati. Inoltre, il ministro della difesa restava nelle mani della destra tradizionalista. Tredici ministri venivano scelti, invece, tra le fila della Società del Clero Combattente. Il nuovo Ministro degli esteri Kharrazi, ex-ambasciatore all’Onu, prese il posto di uno degli uomini più vicini alla Guida Suprema, Velayati; il ministro degli interni Nuri e della cultura Mohajerani venivano scelti tra uomini vicini a Khatami.


Il movimento di Khatami venne definito Dovom-e Khordad, lett. 23 maggio, il giorno della vittoria elettorale. I tre gruppi principali a sostenere Khatami furono la Società del Clero combattente, Mosharekat e Mojahedin Enghelab-e eslami. La Società del Clero combattente sosteneva un addolcimento delle pressioni della leadership conservatrice riducendo il coinvolgimento del clero sciita nei vari centri di potere politico ed economico. Masharekat, il maggiore gruppo riformista, il cui leader è il fratello di Khatami, Reza, è un gruppo di laici, intellettuali e docenti universitari. Il gruppo sosteneva il ridimensionamento del ruolo del Consiglio dei Guardiani e riforme sostanziali per la democratizzazione della Repubblica Islamica. Mojahedin Enghelab-e Islami, guidato da Bezad Natavi, sosteneva un superamento sostanziale del principio di velayat-e faqih.


Inoltre, a sostenere il movimento riformista si formò un insieme variegato di intellettuali religiosi riformatori che proponevano una svolta nelle relazioni tra potere religioso e gestione politica. Sorush, ex docente di filosofia dell’Università di Teheran, denunciava l’invasione della componente islamica sulla società iraniana a discapito delle radici persiane ed occidentali. Khadivar, docente di teologia all’Università di Qom, sosteneva una transizione democratica per limitare il ruolo del clero nella gestione politica. Eskhevari, teologo, sosteneva la separazione tra stato laico e gerarchie religiose sciite. Anche l’ayatollah Montazeri, uno dei più importanti ayatollah del paese, si era espresso a sostegno dell’azione riformista denunciando ogni forma di ostruzionismo da parte della componente tradizionalista.



Le novità del riformismo

Soprattutto i primi anni di governo Khatami hanno introdotto cambiamenti in Iran nel rispetto del diritto, nelle libertà civili ed individuali, nella formazione della società civile, nella libertà di stampa, nelle piccole riforme economiche nell’indizione delle prime elezioni amministrative del 1999 e nella generale azione di distensione nelle relazioni internazionali.

“Ogni forma di convinzione deve avere natura legale e la gente deve sentirsi obbligata a giustificare le proprie azioni agli occhi dell’opinione pubblica. Questo governo è orgoglioso di avere facilitato lo spirito critico. A causa del nostro passato dispotico non siamo inclini alle critiche. La società, in particolare non deve restare indifferente quando la libertà è intaccata in nome della democrazia” (Khatami, dichiarazioni 2000).


Il Riformismo ha sostenuto lo sviluppo della società civile iraniana laica e religiosa incoraggiando il pluralismo dell’informazione, l’associazionismo, l’attivismo universitario. Importanti risultati sono stati ottenuti, poi, nella modernizzazione dei costumi quotidiani, soprattutto in ambiente urbano. Non fa più scandalo vedere bar aperti fino a tarda notte con ragazzi e ragazze seduti a discutere. Completa libertà è lasciata nella vita privata, volto nascosto dell’ipocrisia pubblica.


I riformisti hanno puntato, poi, sulle leggi amministrative. Nel 1999 si sono tenute le prime elezioni dei Consigli locali in Iran. Questo ha ampliato la partecipazione democratica e ridisegnato l’assetto amministrativo e le relazioni tra stato e amministrazioni locali. Le prime elezioni amministrative segnarono la significativa affermazione dei riformisti. Tuttavia, i Consigli locali non posseggono ancora una vera e propria autonomia finanziaria e poteri definiti.


Khatami ha dovuto fronteggiare l’abbassamento dei prezzi del petrolio che nel 1998 toccava i 12$/b. Le misure prese dal governo per contenere l’inflazione hanno condotto l’economia in uno stato di recessione. Tutti i piani programmatici sono saltati. Solo nel 2000 i riformisti hanno tentato di arginare le restrizioni agli investimenti stranieri introducendo contratti di buyback: il finanziamento delle attività di estrazione da parte di una compagnia straniera ed il pagamento finale da parte delle autorità iraniane solo dopo la vendita. Inoltre, sono state create aree di libero scambio sul modello cinese. Infine, sono state avviate riforme del settore bancario con la privatizzazione di alcuni istituti di credito promovendo una maggiore trasparenza finanziaria.



La censura delle riforme

Nei primi due anni di governo Khatami, gli oppositori tradizionalisti hanno esitato nelle azioni di contrasto. Tuttavia, tra il 1998 ed il 1999, l’opposizione ha assunto varie forme. In primo luogo, il Consiglio dei Guardiani ha boicottato il Parlamento annullando la quasi totalità delle leggi approvate. Inoltre, chiunque si definisse riformista ha subito diffamazioni ed intimidazioni. I gruppi paramilitari controllati dalla destra tradizionalista hanno represso manifestazioni studentesche, imposto la chiusura di quotidiani riformisti, compiuto attentati contro intellettuali e cariche prominenti del movimento. Infine, il basso prezzo del petrolio ha contribuito all’aumento dell’inflazione e della disoccupazione rendendo complesso il pagamento degli interessi sul debito estero e fomentando accuse di incapacità nella gestione economica del nuovo governo.


Giovani e studenti, 2/3 della popolazione iraniana, hanno fortemente sostenuto il movimento riformista. La chiusura del quotidiano riformista Salam causò le manifestazioni universitarie del 9 luglio del 1999. I gruppi paramilitari ansar-Hezbollah e basiji sono penetrati nei dormitori, hanno ucciso ed arrestato centinaia di studenti. Il giorno seguente migliaia di studenti e gente comune sono scesi in piazza chiedendo la dissoluzione degli ansar-e Hezbollah, la subordinazione delle forze di polizia al Ministero degli Interni, punizioni per i responsabili delle morti di studenti. Le proteste si sono estese nelle principali città iraniane. L’11 luglio Khatami ha condannato gli attacchi mentre il ministero degli interni ha proibito ulteriori manifestazioni.


Nel 1999 è stato dato, poi, un duro colpo alla libertà di informazione. Con le accuse di “atti che non rispondono a verità”, “diffusione di false opinioni”, “attività anti-islamica”, sono stati chiusi quotidiani vicini al movimento riformista. Particolarmente grave la chiusura di Khordad avvenuta dopo la pubblicazione di dossier su religiosi della destra tradizionalista. Il Ministro dell’Interno Nuri, proprietario del quotidiano, è stato condannato a cinque anni di prigione. In una sola notte sono stati chiusi 70 giornali. L’obiettivo di queste chiusure era di bloccare anche il Ministro della Cultura Mohajerani che autorizzava la riapertura dei quotidiani chiusi sotto altro nome. Per le intimidazioni ricevute Mohajerani si è dimesso. Pochi mesi dopo anche il Ministro degli Interni è stato costretto a dimettersi.


Anche intellettuali ed attivisti hanno sostenuto il movimento riformista. Le prime censure al loro operato risalgono al 1998 con l’uccisione di Dariush Foruhar, leader di un gruppo semilegale, il Partito della Nazione iraniana, e di sua moglie. Pochi giorni dopo venne ucciso Majid Sharif, un giornalista. Le morti hanno colpito decine tra scrittori ed attivisti che avevano promosso un documento per la libertà di espressione durante il governo Rafsanjani. Per il perpetrarsi di queste morti, Khatami ha nominato una Commissione di inchiesta. Pochi giorni dopo, il Ministero dei servizi segreti ammetteva di essere coinvolto nelle uccisioni. Khatami è riuscito a rimuovere il Ministro dei servizi segreti Najafabadi ed a nominare Ali Rabi’i come successore.


Nonostante questi fatti, le elezioni parlamentari del 2000 hanno ulteriormente rafforzato il sostegno popolare al movimento riformista. Il Consiglio dei Guardiani ha dichiarato non idonei soltanto il 10 % dei candidati riconducibili alla coalizione Dovom-e Khordad. Tuttavia, questa ulteriore affermazione ha reso ancora più incisiva l’azione di censura della destra tradizionalista.


Nel 2001, Khatami ha deciso di candidarsi nuovamente per la carica di Presidente della Repubblica ottenendo una vittoria schiacciante, il 78% dei consensi.


Solo nell’estate 2002, il governo ha compiuto un nuovo passo proponendo due testi di legge: uno prevedeva il ridimensionamento del Consiglio dei Guardiani che avrebbe dovuto perdere il controllo preventivo sui candidati alle elezioni, l’altro concedeva al presidente il potere di sospendere le decisioni del sistema giudiziario, controllato dalla Guida Suprema.



I segnali di distensione nelle relazioni internazionali e l’intransigenza occidentale

Khatami ed il Ministro degli Esteri Kharrazi hanno perseguito un chiaro tentativo di distensione nelle relazioni internazionali. I nuovi colloqui con l’Arabia Saudita in tema di quote petrolifere e nella lotta al terrorismo sono stati i risultati principali del nuovo corso della politica estera iraniana. Inoltre, i solidi legami con la Russia e l’apertura alle Repubbliche ex sovietiche hanno rafforzato le relazioni regionali anche riguardo alle questioni della partizione del mar Caspio e del trasporto di gas naturale.


D’altra parte, i riformisti hanno avuto all’inizio un timido appoggio da Ue e Stati Uniti. Tuttavia, lo stato di accerchiamento, dopo la caduta dei talebani in Afghanistan e del Baath in Iraq, e la crisi nucleare hanno aggravato la fase di stallo del movimento riformista.


Dopo la vittoria dei riformisti, infatti, l’Unione europea ha avviato un “dialogo critico” con il governo iraniano. Sono stati siglati importanti contratti tra Eni, Total, Elf e Teheran per l’estrazione del petrolio iraniano. Tuttavia, la questione nucleare ed il deteriorarsi nel rispetto dei diritti umani hanno costituito fonte di tensione tra Iran e governi europei. Nell’ottobre del 2003, i ministri degli esteri di Francia, Germania e Gran Bretagna, la cosiddetta troika, hanno avviato colloqui con Teheran per bloccare l’intenzione iraniana di sviluppare tecnologie nucleari. Tuttavia, da una parte, la leadership rivoluzionaria conservatrice ha utilizzato il tema nucleare come fonte di coesione ideologica interna, dall’altra, i riformisti sono apparsi poco efficaci, si sono espressi, infatti, a favore dello sviluppo di tecnologie nucleari tentando di raggiungere un compromesso con la comunità internazionale.


Con la vittoria dei riformisti e le prime aperture dei paesi europei, anche l’amministrazione Clinton ha manifestato qualche intento di riavvicinamento verso l’Iran. Il Segretario di Stato Madeline Albright ha espresso il suo rammarico per l’intervento sei servizi segreti americani nel colpo di stato che ha allontanato dal potere Mossadeq nel 1953. Tuttavia, dopo l’11 settembre 2001, l’amministrazione Bush ha indicato l’Iran tra i paesi accusati di “sostenere il terrorismo internazionale, avere legami con al Qaeda, produrre armi di distruzione di massa”, far parte dell’ “asse del male” assieme ad Iraq e Corea del Nord. L’amministrazione Bush ha, inoltre, confermato l’Ilsa, Iran Lybia sancion Act (1996), legge che ha come obiettivo l’isolamento commerciale della Repubblica Islamica tramite sanzioni alle aziende che intendessero promuovere ingenti investimenti in Iran. Questi atti hanno dato un colpo fatale alla credibilità del riformismo come movimento di cambiamento e favorito la vittoria dei radicali alle elezioni del 2005. Nonostante ciò il governo riformista ha continuato a dimostrare notevole pragmatismo sostenendo le azioni militari statunitensi contro i talebani nel 2001 e mantenendo un profilo di cooperazione sul fronte irakeno sia durante gli attacchi del 2003 che negli anni successivi.



Il fallimento del movimento riformista

Il colpo più duro al movimento riformista è venuto dalle elezioni municipali del 2003, dalle parlamentari del 2004 ed, infine, dalle presidenziali del 2005. Nelle elezioni locali del 2003 si è registrata una bassissima partecipazione, soprattutto nelle grandi città. Questo ha permesso una generale affermazione dei candidati conservatori e radicali. Nelle elezioni parlamentari del 2004, l’opera di cancellazione preventiva di quasi tutti i candidati riformisti, anche di chi già sedeva in Parlamento, ha inasprito l’atmosfera preelettorale. Le reazioni dei riformisti sono state dure: sit-in in Parlamento e le dimissioni di alcuni ministri. Tuttavia, meno del 50% degli elettori si è recato alle urne, il 28% a Teheran, le percentuali più basse dall’inizio della Rivoluzione. I conservatori hanno ottenuto la maggioranza assoluta dei seggi.


Alle elezioni presidenziali del 2005 - con buoni dati di affluenza nonostante varie denunce di brogli elettorali di attivisti ed osservatori - l’unico candidato riformista Mostafa Mohin ha ottenuto soltanto il 14% dei voti e non ha neppure superato il primo turno lasciando la strada aperta all’affermazione del radicale Ahmadinejad.


I riformisti hanno fallito. Non hanno modificato i rapporti di potere generati da 25 anni di Rivoluzione Islamica. Non sono riusciti ad intaccare la subordinazione del Parlamento rispetto al Consiglio dei Guardiani. La causa di questa sconfitta è dovuta al fatto che parte del movimento riformista non detiene il controllo di alcuno dei centri del potere sostanziale in Iran, mentre altri, ben inseriti nel sistema rivoluzionario, sono conniventi con la leadership conservatrice.



Giuseppe Acconcia
affarinternazionali.it

Testi consigliati


Riccardo Redaelli, Asja Mayor, , Il Mulino, Bologna, 2001

Ramin Jahmbegloo, Iran between tradition and modernity, Lexington Books, 2004

Jahangir Amuzegar, Iran’s Economy under the Islamic Republic, , I.B. Tauris,
New York, 1993

Mohammad Khatami, Religione, libertà e democrazia, Sagittari Laterza, 1999

Wilfired Buchta, Who rules Iran?, Istituto Studi per il Medio Oriente, 2000



Siti Consigliati

www.emrooz.ir; www.iranfocus.ir; www.irna.ir; www.isna.ir; www.imf.org

mercoledì 12 ottobre 2011

I centri del potere politico-economico in Iran

Il Presidente della Repubblica in Iran non detiene alcun potere sostanziale. La Società del Clero Combattente, il maggior gruppo che ha sostenuto il movimento riformista, è parte del sistema rivoluzionario ma gradualmente escluso dai luoghi principali del potere. I gruppi Mosharekat e Mojaheddin Enghelab-e eslami non hanno alcun accesso reale alle istituzioni rivoluzionarie.


Le istituzioni khomeiniste post rivoluzionarie hanno limitato l’accesso al potere politico delle componenti liberali e comuniste, prima, e bloccato ogni tentativo di riforma, poi, forzando i meccanismi democratici che esse stesse prevedevano.



La Guida Suprema ed il Consiglio dei Guardiani

I poteri politici e di controllo più forti sono nelle mani della Guida Suprema della Rivoluzione, nominato a vita dall’Assemblea degli Esperti. Questi riveste le cariche di Capo delle forze armate, nomina sei giuristi del Consiglio dei Guardiani, il capo del sistema giudiziario, il Presidente della televisione e della radio di stato, il capo dei pasdaran e dei servizi paramilitari e di sicurezza. A queste cariche formali deve essere aggiunta una rete di uomini di fiducia controllati dal leader. Queste persone sono inserite nei ministeri, nelle forze armate, nelle amministrazioni locali, nelle associazioni, nelle Ong.


Il principio di governo del faqih è assente nel sistema sciita perché ogni fedele sceglie un ayatollah di riferimento. Nessun ayatollah può interferire nella sfera di azione di un altro ayatollah. Khomeini ha forzato questo sistema introducendo la figura di Guida Suprema grazie alla sua leadership carismatica. Alla sua morte, Khamenei è stato nominato suo successore pur non godendo del sostegno di alcune componenti del clero presenti nelle città di Qom e Mashad, tra cui l’ayatollah Montazeri. Tuttavia, questi gruppi non rappresentano un’opposizione politica perché accettano per legge la carica di Guida Suprema.



Le istituzioni rivoluzionarie ed il sistema giudiziario

Il Consiglio dei Guardiani, presieduto dall’ayatollah Jannati, ultraconservatore, è composto da dodici giuristi, sei laici nominati dal Parlamento, sei religiosi, nominati dalla Guida Suprema. E’ l’ultima istanza interpretativa della Costituzione. Decide puntualmente sulla compatibilità di ogni legge approvata dal Parlamento con la legge islamica. Esercita, inoltre, un controllo di compatibilità preventiva dei candidati alle elezioni parlamentari e presidenziali.


L’Assemblea degli Esperti è composta da 86 membri, eletti a suffragio universale. L’elezione avviene ogni otto anni su base regionale: ognuna delle 28 province nomina un suo rappresentante, uno in più per ogni 500.000 abitanti oltre il milione. L’Assemblea ha il compito di nominare la Guida Suprema e ne può decidere la deposizione in caso di incapacità di governo o se perde i requisiti previsti dalla Costituzione. L’assemblea è dominata dalla destra tradizionalista ed è presieduta dall’ayatollah ali Meshkini.


Il Consiglio per la Determinazione delle scelte è stato costituito da Khomeini nel 1988 per risolvere i conflitti tra Parlamento e Consiglio dei Guardiani. E’ formato da 31 membri scelti tra le diverse correnti politiche. Ha il potere di far approvare una legge che sia stata rifiutata dal Consiglio dei Guardiani ma che sia stata votata nuovamente dal Parlamento. Oggi ne è Presidente Rafsanjani.


La Guida Suprema e con lui la destra tradizionalista controllano, inoltre, anche l’intero sistema giudiziario. La Guida Suprema nomina il Capo del Sistema giudiziario, oggi l’ayatollah Hashemi Shahroudi. Quest’ultimo controlla servizi di informazione e di polizia, direttamente dipendenti dal sistema giudiziario, e luoghi segreti di detenzione.



Pasdaran e basiji

La Guida Suprema Ali Khamene’i continua a controllare un complesso insieme di forze militari e su di esse si basa l’intero meccanismo coercitivo della Repubblica Islamica. Le forze più importanti a disposizione della leadership religiosa sono i sepah-e pasdaran. Ad essi si aggiungono una sigla infinita di grandi e piccoli gruppi armati più o meno ufficiali.


I pasdaran sono chiamati a difendere la Rivoluzione e le sue istituzioni. Al momento della loro costituzione erano chiamati a controbilanciare il sistema di reclutamento regolare ancora filo monarchico. Nei primi anni dopo la Rivoluzione, i pasdaran sedarono ogni forma di spinta che veniva da minoranze etniche e partiti politici comunisti e liberali.


I basiji sono formalmente sotto il comando dei pasdaran. Il gruppo è stato fondato alla fine del 1979 per la protezione da interventi americani e nemici interni. Il gruppo paramilitare è formato da uomini poverissimi e conta milioni di affiliati. Nel 1995 Khamene’i ha proposto una riforma del sistema di sicurezza che ha permesso il passaggio di uomini dai pasdaran ai basiji. Da allori sono stati creati centinaia di piccoli gruppi paramilitari dalle più svariate denominazioni. Il comandante dei basiji è Ali Reza Afshari. Egli coordina la sicurezza urbana. Questo gruppo è particolarmente violento e viene spesso utilizzato soprattutto in caso di manifestazioni popolari.



Le Fondazioni e le Preghiere del Venerdì

Il controllo sull’economia agricola, industriale e dei servizi viene esercitato dai mullah tramite il sistema delle Fondazioni islamiche. Secondo alcuni analisti, il 60% del PIL iraniano viene dai proventi di queste imprese. Infatti, sebbene le fondazioni vengano qualificate come enti senza scopo di lucro, sono coinvolte in numerosissime attività di natura commerciale. Dalle Fondazioni dipendono i sussidi distribuiti ai diseredati, alle famiglie delle vittime della guerra Iran-Iraq, esse hanno la funzione di uffici di collocamento, soprattutto per pasdaran e basiji in pensione, forniscono borse di studio, alloggi popolari, assistenza sanitaria. Sono divenute, quindi, una sorta di sistema sociale permanente che forma la base sociale del consenso al regime. Esse godono di ampi favori fiscali, tra cui la non imponibilità degli utili, nonché di prestiti agevolati e donazioni, di indipendenza nel commercio estero.


La Fondazione dei Diseredati, boyand-e janbazan va mostazafan, è la seconda “impresa” del paese dopo la Società Nazionale del Petrolio. Possiede alberghi, banche, imprese in più di ottanta paesi, nel Golfo Persico ed in Europa. Nacque nel 1979 dall’esproprio della Fondazione Pahlavi per il sostegno ai diseredati, ai poveri. Essa offre assistenza sanitaria, medica, educativa, artistica e sportiva. Le banche che questa Fondazione possiede controllano un quarto delle banche commerciali di Dubai.


La seconda Fondazione più importante è la Asnane Oze Rezavi, è la più antica dell’Iran ed ha sede nella città di Mashad. Il punto di forza di questo ente è il potere di contrattazione diretta con l’estero che le è tradizionalmente riconosciuto. Il Presidente, Vàez Tabasi, è membro dell’Assemblea degli Esperti. La Fondazione gestisce una propria banca ed una propria compagnia aerea. È monopolista nello sfruttamento dell’oro, dei metalli preziosi e del gas lungo la frontiera con il Turkmenistan. Naser Tabasi, figlio del Presidente della Fondazione e marito di una delle figlie di Khamene’i, si è dedicato al progetto di inserire Mashad in un network di città commercialmente attraenti in Asia centrale ed inoltre ha lavorato per l’acquisizione di armi e tecnologie nucleari.


La terza Fondazione per importanza è la Fondazione dei Martiri, guidata da Mohammad-Hosein Rahimiyan, fondata da Khomeini. Oggi conta 350 uffici e 30.000 dipendenti. I suoi obiettivi ufficiali sono il sostegno ai veterani della Rivoluzione Islamica e alle famiglie dei caduti della guerra Iran-Iraq. La Fondazione possiede 68 industrie, 75 agenzie commerciali, 21 compagnie edilizie, 17 imprese agricole, terreni e beni immobili.


Khamene’i ha il controllo diretto della Fondazione dei Martiri attraverso il Capo, Rahimiyan. Egli controlla indirettamente la Asnane oze Rezavi, forte dell’amicizia lunga una vita col Presidente Tabasi e rinvigorita dal matrimonio cui si è accennato in precedenza. Le Fondazioni sono inoltre legate ai mercanti del bazar attraverso il Consiglio Islamico di Coalizione guidato da Asgar-Oladi, personaggio eminente del gruppo politico Motalefè che sostiene Rafsanjani. Da questo fatto si deduce lo stretto rapporto che intercorre tra Fondazioni e famiglia Rafsanjani. Grazie a questi legami Rafsanjani controlla gran parte del commercio con l’Asia ed accede ad un’ingente frazione degli introiti della vendita del petrolio.


È la gran parte dell’oligarchia religiosa conservatrice ad avere interessi diffusi in varie Fondazioni. Hojatieh è un’associazione informale di religiosi nata negli anni ‘50 per contrastare la minoranza baha'i in Iran. Oggi è guidata da Mohammad-Reza Mahdavi e costituisce una rete di relazioni che unisce oligarchia religiosa, il gruppo politico Associazione del Clero Militante e Fondazioni.


L’Emame Jomè, la Preghiera del Venerdì, da momento di incontro e preghiera tra fedeli si è trasformata in una sorta di rete di collegamento tra religiosi di varie città iraniane. Questi mullah si incontrano ufficialmente per motivi spirituali. Godono di stabili collegamenti con i leader religiosi conservatori. Il nucleo centrale del gruppo è formato da personalità eminenti del clero sciita tra cui l’ayatollah Ali Meshkini, l’ayatollah Emam Kashani, l’ayatollah Mohammad Taqi Mesbah Yazdi e l’ayatollah Hojati Kermani. Questa associazione di mullah offre inoltre 20.000 stipendi a studenti di teologia sparsi in tutto il paese. Per sottolineare quanto la Preghiera del venerdì e la moschea in generale siano divenute un luogo politico, basta leggere alcuni estratti di una predica dell’ayatollah Mesbah Yazdi. “Il ricorso alla violenza è d’obbligo per la difesa della Repubblica Islamica anche se questo dovesse comportare la morte di migliaia di persone”. Questi discorsi sono diventuti dei veri e propri ordini per le milizie paramilitari, basiji e ansar-e Hezbollah.



I mercanti del bazar

I mullah hanno sempre sostenuto i mercanti del bazar. Oggi il bazar è una vera e propria rete di credito esterna al sistema bancario legale. Le connessioni tra sistema politico e mercanti del bazar permettono a questi ultimi di accedere ad informazioni ed ottenere privilegi in settori quali il commercio con l’estero e la distribuzione interna aggirando i limiti imposti dalla legge. Le offerte degli uomini del bazar risultano particolarmente allettanti considerando i tassi sconvenienti, inferiori ai tassi di inflazione, proposti dalle banche di stato. Inoltre, queste attività creditizie sono totalmente detassate e non vengono considerate nel calcolo del Pil.




Testi consigliati


Riccardo Redaelli, Asja Mayor, , Il Mulino, Bologna, 2001

Ramin Jahmbegloo, Iran between tradition and modernity, Lexington Books, 2004

Jahangir Amuzegar, Iran’s Economy under the Islamic Republic, , I.B. Tauris,
New York, 1993

Mohammad Khatami, Religione, libertà e democrazia, Sagittari Laterza, 1999

Wilfired Buchta, Who rules Iran?, Istituto Studi per il Medio Oriente, 2000



Siti Consigliati

www.emrooz.ir; www.iranfocus.ir; www.irna.ir; www.isna.ir; www.imf.org



Giuseppe Acconcia
affarinternazionali.it

martedì 11 ottobre 2011

Il dissenso, le ong e la repressione in Iran

La possibilità di un attacco armato degli Stati Uniti contro l’Iran e la vittoria di Ahmadinejad hanno bloccato l’opposizione politica al regime iraniano e ridimensionato ogni forma di dissenso civile.
Le applicazioni restrittive dei regolamenti per gli esoneri all’arruolamento nell’esercito e le limitazioni ai diritti dei riservisti confermano lo stato di allerta del regime iraniano per far fronte ad un possibile attacco militare. Inoltre, la vittoria di Ahmadinejad ha di fatto annullato la flebile opposizione politica del movimento riformista. Il presidente dispone di poteri limitati, sovrapponibili a quelli del suo predecessore Khatami, e non sta agendo per ridimensionare l’elite religiosa che continua a controllare i principali centri del potere politico, economico e militare del paese.
Dall’elezione di Ahmadinejad fino alla famosa dimostrazione studentesca al Politecnico Amirkabir di Teheran, quando sono state bruciate foto del presidente iraniano ed è stato urlato lo slogan “Vai fuori fascista!”, tutti i gruppi studenteschi di opposizione hanno subito intimidazioni. Sono stati chiusi giornali universitari ed è stato limitato l’accesso degli studenti ai corsi anche se non si hanno notizie di arresti sommari o di torture.
“Mi hanno impedito di iscrivermi all’Università. -dice Jolan, studente del Politecnico di Teheran- e nel primo semestre di quest’anno lo hanno fatto con tanti altri studenti. Hanno impedito a molti altri di proseguire i loro studi. Hanno intenzione di eliminare qualsiasi voce di dissenso, ma con azioni meno aggressive che in passato. Cercano di agire per limitare il dissenso con mezzi legali poiché tutto il potere è nelle loro mani. Hanno chiuso 52 giornali studenteschi e minacciato molti altri attivisti politici eletti alle elezioni universitarie.”
L’unico quotidiano apertamente riformista, Shargh (Est), è stato chiuso nell’autunno del 2006. Molti giornalisti di Shargh hanno tentato di aprire un nuovo quotidiano, Roozgar, chiuso dopo pochi giorni. Alcuni giornalisti di Shargh e di Roozgar lavorano ora per Etemad Melli, quotidiano di Karroubi, presidente del Parlamento durante gli anni di governo riformista. Sempre più spesso, giornalisti dissidenti della carta stampata si trasformano in blogger, in un paese dove, secondo Internet World Stat, ci sono 7,5 milioni di utenti. Sin dal 2004, Reporters sens frontieres ha segnalato vari arresti di blogger e chiusure di siti di dissidenti politici. Anche in questo settore, la strategia del regime negli ultimi mesi appare determinata. E’ stato aperto un registro ufficiale dei siti web, sono stati ampliati i limiti per la censura ai contenuti, in precedenza rivolti ai soli siti “immorali e pornografici”, e si è tentato di rallentare la velocità di connessione alla rete.
Negli anni di governo riformista sono nate più di 15mila organizzazioni non governative (Ong). I limiti nell’attività politica e giornalistica e il sostegno di finanziamenti internazionali hanno spinto molti attivisti ad impegnarsi nell’organizzazione di gruppi per la difesa dei diritti umani. Con l’aumento del numero di Ong si è accentuato, però, l’intervento e il controllo governativo sulle loro attività.
“Le prime Ong sono nate per la volontà delle autorità religiose di difendere la Rivoluzione tramite attori non statali impegnati in azioni caritatevoli”, dichiara Sayyd, più volte in prigione ed ora impegnato in un’Ong per la difesa dei diritti umani. “Le organizzazioni nate negli anni di governo riformista hanno proposto, invece, un più ampio coinvolgimento della società civile. Si è affermato, poi, un nucleo forte di Ong per la difesa dei diritti umani. Negli ultimi anni, in seguito alla vittoria di Ahmadinejad, le Ong sono state letteralmente occupate dai Riformisti, lentamente estromessi dal potere politico. Questo ha provocato un danno irreparabile al settore. Il timore di Ong controllate dai Riformisti ha determinato anche in questo ambito un’ondata intimidatoria e di chiusure simile a quella registrata nel giornalismo.” Nei primi anni di presidenza Ahmadinejad sono stati imposti limiti anche alla creazione di Ong. Nonostante ciò, sta avendo un importante successo l’iniziativa, avviata nell’estate 2006, “One million signatures for women’s rights”, sostenuta da varie Ong, tra cui Khanaye Seffed Mehr impegnata nell’affermare un trattamento paritario di uomini e donne nel diritto successorio, nelle procedure processuali, nell’affidamento dei minori.
Quanto al clero, continua la repressione di religiosi critici dell’assetto istituzionale post-rivoluzionario. Gli ayatollah Borujerdi e Montazeri infatti, contrari alla commistione tra religione e politica, sono il primo in prigione ed il secondo agli arresti domiciliari. Ancora una volta, in un contesto di diffusa militarizzazione e di totale chiusura politica, l’opposizione al regime viene da azioni promosse dalla società civile: da studenti, giornalisti e Organizzazioni non governative. Al contrario di quanto si possa immaginare, non esiste una repressione violenta di queste dimostrazioni di dissenso, ma azioni intimidatorie. Ciò è possibile perché si tratta di manifestazioni che richiamano poche persone e che non preannunciano un vero movimento di opposizione popolare.
L’assenza di una repressione violenta del dissenso civile dimostra comunque la forza del regime iraniano. La possibilità di un attacco armato e la vittoria di Ahmadinejad stanno indebolendo la società civile iraniana, già ridimensionata e frammentata in seguito al fallimento del movimento riformista e all’assenza di un’opposizione religiosa al regime.

Giuseppe Acconcia
Lettera 22, Il Riformista

lunedì 10 ottobre 2011

IRAN, ASPETTANDO LE SANZIONI

Se in pochi giorni l’Iran non decidesse di sospendere l’attività di arricchimento dell’uranio, il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite potrebbe inasprire le sanzioni previste dalla Risoluzione 1737 del dicembre scorso. Le sanzioni, finora approvate, prevedono il bando all’offerta di tecnologie e materiali nucleari ed il congelamento dei conti bancari di società iraniane ed individui coinvolti nel programma nucleare.
L’avventurismo della politica economica di Ahmadinejad sta indebolendo l’economia iraniana, completamente dipendente dall’andamento del prezzo del petrolio. Il piano economico quinquennale (2005-2009), approvato dal precedente governo del riformista Khatami, aveva stabilito una graduale diminuzione del finanziamento della spesa pubblica con i ricavi dell’esportazione del petrolio. Inoltre, aveva disposto un progressivo aumento dei prezzi della benzina ed un abbassamento dei sussidi alla vendita del greggio. Nonostante ciò, la manovra finanziaria 2006-2007 del governo Ahmadinejad ha richiesto un trasferimento straordinario dei ricavi delle esportazioni petrolifere alle politiche sociali di 40 miliardi di dollari rispetto ai 15 previsti. Tuttavia, il 21 gennaio 2007, quando il Parlamento iraniano ha discusso la legge finanziaria 2007-2008, Ahmadinejad ha dovuto ridimensionare il suo piano di finanziamento delle politiche sociali. Infatti, il governo iraniano ha rivisto al ribasso le stime del prezzo del petrolio per il 2007 da 44 $/b a 33 $/b. Come se ciò non bastasse, nonostante il fabbisogno petrolifero iraniano sia andato crescendo e siano enormemente aumentate le importazioni dall’estero di prodotti petroliferi raffinati, il Parlamento ha approvato il congelamento del prezzo della benzina a 7 centesimi di euro al litro. Il prezzo più basso di tutto il Medio Oriente. Queste decisioni mirano ad attuare una politica economica di controllo dell’inflazione. “Il governo non agisce significativamente in relazione alle politiche monetarie e fiscali. L’obiettivo è di controllare l’inflazione anche se questo comporta dei tassi di crescita economica più bassi. - ha dichiarato l’economista Sayyd Laylaz all’International Crisis Group - L’obiettivo del governo è di ridimensionare le importazioni e controllare i prezzi di oggetti quali cemento, metalli, prodotti di consumo e tasse aeree”.
Secondo la Banca Centrale iraniana, nel primo semestre del 2006 il tasso di inflazione è all’11%. L’inflazione percepita è anche più alta sia per le agevolazioni di cui godono i mercanti del bazaar che per la mole di affari nelle mani del mercato nero, circa il 20% del Pil. Inoltre, il tasso di disoccupazione ufficiale è al 12%. Tuttavia, in questa cifra la disoccupazione giovanile spesso non è inclusa, in un paese dove il 70% della popolazione ha meno di 30 anni. Il presidente Khatami, dopo lo stato di semirecessione del 1999, causato dall’abbassamento del prezzo del petrolio, allora a 12$/b, aveva tentato di avviare alcune riforme: la privatizzazione di piccole banche pubbliche, l’apertura di zone di libero scambio, l’approvazione della legge “per l’attrazione e la protezione degli investimenti stranieri” e la creazione del Fondo per la stabilizzazione del petrolio per prevenire crisi economiche dovute all’andamento del prezzo del greggio. Queste iniziative non hanno, però, intaccato gli interessi dei principali leader religiosi che attraverso le Fondazioni, aziende ufficialmente no-profit dagli utili detassati, continuano a controllare la quasi totalità del sistema produttivo iraniano.
Oggi, per queste gravi cause strutturali e per le politiche avventuriste del governo Ahmadinejad, ci sono molti segnali di una possibile crisi economica in Iran. E questo spiegherebbe, secondo alcuni, la necessità della leadership religiosa di puntare sull’autonomia energetica tramite il ricorso al nucleare. Nel 2006 economisti, esponenti della società civile e riformisti hanno firmato una lettera indirizzata al Parlamento in cui denunciavano le “politiche inflazionistiche del governo”. 50 parlamentari, tra cui anche conservatori, hanno chiesto, poi, le dimissioni di vari ministri e un cambiamento radicale nella politica economica di Ahmadinejad. “Il governo iraniano anzicchè investire per l’innovazione degli impianti produttivi- sostiene il prof. Roger Stern in un articolo apparso sull’Herald Tribune- conduce al collasso il suo settore petrolifero facendo confluire i ricavi nell’assistenzialismo di stato. Ci sono molti segnali di una possibile crisi petrolifera in Iran”.
In questo contesto sanzioni economiche incisive potrebbero destabilizzare l’economia iraniana. Secondo un rapporto presentato nel settembre del 2006 dalla Commissione per gli affari esteri e la difesa del Parlamento iraniano, reso noto nel gennaio scorso dal quotidiano francese “Le monde”, “l’aggravarsi delle condizioni economiche potrebbe causare movimenti sociali che potrebbero condurre al deteriorarsi e ad un affievolimento della stabilità interna”. Secondo questa Commissione, l’effetto combinato del congelamento delle riserve straniere, dell’imposizione di un embargo sulle importazioni di petrolio grezzo e di una interdizione dell’esportazione di prodotti petroliferi raffinati verso l’Iran provocherebbe conseguenze sociali ed economiche negative per il paese.
In ogni caso, l’efficacia delle sanzioni economiche all’Iran dipende dalle adesioni di Russia, India, Giappone ed Unione europea. Infatti, gli Stati Uniti sin dal 1996 hanno imposto sanzioni ad aziende che investano o commercino per un valore superiore ai 20 milioni di dollari con l’Iran. Se anche i paesi nominati sopra aderiranno a politiche economiche sanzionatorie incisive, decise dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, la Repubblica Islamica d’Iran vedrebbe seriamente minate le già fragili basi della sua stabilità economica e sociale.

Giuseppe Acconcia
Lettera 22

giovedì 6 ottobre 2011

Intervista a Dawud Barakat e Anath Kurtz

Lo stato incerto dell’infinito conflitto israelo-palestinese

Intervista a Dawud Barakat e Anath Kurtz

L’arresto della metà dei membri del governo di Hamas, le pressioni sulla Striscia di Gaza per il rilascio del militare israeliano, le ultime tensioni con il Libano rendono quanto mai incerti gli sviluppi del conflitto israelo-palestinese. Ne abbiamo parlato con l’ex rappresentante dell’Olp alle Nazioni Unite, Dawud Barakat per alcuni giorni in visita in Italia e con la ricercatrice israeliana del Jaffee Center di Tel Aviv, Anath Kurtz. I nostri interlocutori propongono due punti di vista divergenti sulla vittoria di Hamas, sul disimpegno unilaterale israeliano e sulle prospettive del negoziato.

La vittoria di Hamas alle elezioni politiche ha trasformato il movimento che si è opposto agli accordi di Oslo in forza di governo. Crede in Hamas come forza di governo e di cambiamento?

Dawud Barakat. Hamas ha un’impronta ideologica che non condivido. L’islamizzazione delle istituzioni palestinesi promossa da Hamas nelle amministrazioni locali è in contraddizione con la cultura civile del nostro popolo. Mi preoccupa, poi, la tendenza di Hamas di concepire la guerra di liberazione come uno strumento di potere. Questo si avvicina troppo marcatamente alla strategia politica di Hezbollah. La morte di Ahmed Yassin, leader carismatico di Hamas ucciso dalle forze armate israeliane nel 2004, ha fatto emergere le divisioni tra le fazioni più estremiste in esilio a Damasco e le componenti dell’attuale governo Hanyeh. Nonostante sia prevalsa la componente moderata di Hanyeh che implicitamente accetta gli accordi di Oslo, Hamas non era e non è pronta a divenire una forza di governo. Lo dimostrano le lunghe trattative per la formazione dell’esecutivo a cui ha fatto seguito l’accettazione di un programma politico solo in parte di cambiamento.

Anath Kurtz. Hamas non ha avuto modo di governare. Da un lato, per gli ostacoli imposti dalla presidenza palestinese e per il mancato controllo delle forze di sicurezza. Dall’altro, Israele ha indebolito Hamas rendendola incapace di qualsiasi azione di governo. Questi fattori devono essere inseriti in un ambiente di completa instabilità e incertezza che non permette a nessuna forza di governare agevolmente. Tuttavia, la vittoria di Hamas non modifica la realtà sul campo. Per le autorità israeliane tanto Fatah quanto Hamas non rappresentano interlocutori credibili per raggiungere una stabile soluzione del conflitto.

Lo stato di assedio della Striscia di Gaza e le azioni militari israeliane mettono in discussione l’autonomia dei territori “liberati” in seguito al ritiro israeliano. La politica israeliana del disimpegno unilaterale avvicina davvero la soluzione dei due stati?

Dawud Barakat Sicuramente no. Il disimpegno unilaterale israeliano è una soluzione parziale e come tale è destinata a non avere successo. Difatti, Israele è impegnato in una razionalizzazione della sua presenza nei territori occupati: da una parte, si ritira dalle aree più densamente popolate e dall’altra annette gran parte della Cisgiordania. Non solo, ma i territori “liberati” restano sotto diretto controllo delle forze israeliane. In questo modo si evita un negoziato sullo status di Gerusalemme. Gli israeliani stanno cambiando la demografia della città trasformando la componente palestinese in minoranza. Israele, poi, si rifiuta di parlare di prigionieri e di rifugiati governando in uno stato di apharteid empirica. In realtà, la politica di costruzione di nuovi insediamenti ha ulteriormente frammentato i territori palestinesi allontanando ogni possibilità di continuità territoriale. Quindi, sembra chiaro che il governo israeliano non voglia uno Stato palestinese autonomo. Invece, per l’Autorità Palestinese non esiste alternativa alla soluzione dei due Stati. Un nuovo negoziato deve trovare una risposta globale a tutte le questioni sul campo. E neppure la Road Map andava in questa direzione.

Anath Kurtz. La politica di disimpegno unilaterale israeliana è una conseguenza dell’impossibilità di un negoziato. Dopo dieci anni senza negoziati Israele non ha deciso semplicemente di boicottare Arafat o il governo Hamas. Israele ha deciso di risolvere il conflitto nonostante l’assenza di interlocutori credibili. Va aggiunto che la politica di disimpegno non è una risposta al terrorismo, tuttavia, ha ottenuto risultati importanti in questa direzione.
Inoltre, promuovendo la politica di disimpegno unilaterale, Sharon prima e Kadima poi hanno scardinato gli schemi tradizionali dell’ideologia politica della destra sionista. Hanno, infatti, rinunciato definitivamente a porzioni di territorio della Grande Israele. La politica del disimpegno è, quindi, una strategia israeliana essenziale. Ricordo che sono stati i palestinesi per primi a dar luogo a violenze senza motivo con lo scoppio della seconda Intifada. Anche questo è unilateralismo. Certo, Israele non sta agendo per stabilire uno Stato palestinese autonomo. Israele per il momento vuole difendere, innanzitutto, la propria sicurezza.

Quali sono le prospettive del conflitto visti i recenti sviluppi?

Dawud Barakat. In questi giorni è in gioco la sopravvivenza dell’Autorità palestinese. Gli israeliani non potranno spingersi oltre ogni limite nella pressione sui territori perché non godono del sostegno dell’opinione pubblica israeliana. L’arresto di metà del governo Hanyeh fa pensare a un possibile governo di coalizione che limiti il ruolo di Hamas e rimetta in gioco Fatah, si spera nella sua componente meno logorata dagli anni di gestione del potere.

Anath Kurtz. La situazione presente è terribile. Da una parte è probabile che la pressione sui territori conduca al collasso del governo Hamas mentre Fatah non è abbastanza unito per gestire una fase di transizione. Dall’altro lato, non è escluso che, visti i recenti sviluppi, Kadima veda diminuire gradualmente il suo consenso riproponendo la cronica instabilità politica israeliana. Questo rafforzerebbe nuovamente il Likud. Un nuovo tavolo negoziale è quanto mai lontano.

Giuseppe Acconcia

mercoledì 5 ottobre 2011

Italia-Iran e nucleare

L’Italia è tornata protagonista nel negoziato nucleare iraniano. In realtà, lo è sempre stata sebbene dietro le quinte. L’Italia insieme alla Germania è, infatti, il primo partner commerciale europeo dell’Iran e il quinto globale, dopo Russia, Cina e Giappone. Possibili sanzioni darebbero perciò all’economia italiana un durissimo colpo che, si sente dire negli ambienti diplomatici, ci costerebbe quanto “due finanziarie”. Con questo dato di partenza, un po’ iperbolico, va ricostruito il ruolo italiano nel negoziato con l’Iran a partire dalla creazione del gruppo di contatto europeo dell’ottobre 2003, per poi analizzare le nuove iniziative italiane nella fase di impasse del 2005 e per registrare, infine, la svolta negoziale dei recenti incontri tra autorità iraniane ed italiane.

Le prime denunce
La questione nucleare iraniana si è aperta nel 2003 con la denuncia da parte del Consiglio Nazionale della Resistenza d’Iran – dal 1986 con sede operativa a Baghdad - della presenza di siti non segnalati all’Agenzia per l’Energia Atomica (Aiea) e dello sviluppo di programmi di arricchimento dell’uranio nelle città di Natanz, Arak e Saghand. Il Consiglio Nazionale della Resistenza d’Iran è un gruppo composto da Mojaheddin-e Khalq, curdi del Kdp-I (Partito democratico dei curdi iraniani) e liberali, vecchi seguaci dell’ex-presidente iraniano Bani Sadr: tre tra i maggiori gruppi di opposizione al regime degli ayatollah costretti all’esilio sin dai primi anni successivi alla Rivoluzione Islamica.

Dopo l’intervento degli Stati Uniti in Iraq del 2003, era riemersa la questione dello status giuridico da attribuire ai militanti dei Mojaheddin-e Khalq presenti su territorio iracheno ma, grazie alle informazioni sulla questione nucleare, almeno 4.000 membri del gruppo hanno ottenuto dal governo provvisorio iracheno lo status di rifugiato politico. Pertanto, sostenere la validità della denuncia del Consiglio Nazionale di Resistenza ha costituito nel 2003 già una dura presa di posizione contro le istituzioni iraniane post-rivoluzionarie. E gli Usa ne hanno tenuto conto per legittimare la presenza dell’Iran tra i paesi dell’“asse del male”.

Quando nel 2003 Francia, Germania e Gran Bretagna hanno aperto i colloqui negoziali con l’Iran, l’Italia era presidente di turno del Consiglio europeo. I tre paesi Ue hanno avviato dei contatti con le autorità iraniane per fermare il programma nucleare e per raggiungere un accordo, allo scopo di evitare possibili iniziative degli Stati Uniti. Secondo fonti diplomatiche, gli iraniani hanno chiesto ad altri paesi, tra cui l’Italia, di entrare a far parte del gruppo di contatto. Nonostante ciò, l’Italia nell’ottobre del 2003 non era entrata nel negoziato per il nucleare iraniano, dato che l’evoluzione del negoziato appariva del tutto ambigua. Da una parte, la leadership iraniana sembrava infastidita dai modi con cui la questione era stata sollevata, dall’altra, le possibili iniziative degli Stati Uniti apparivano ancora incerte.

I colloqui del gruppo di contatto non hanno avuto il sostegno dell’amministrazione Usa, e neppure di tutti i paesi europei. Questo ha indebolito in modo rilevante la credibilità dei negoziatori agli occhi delle controparti iraniane. Gli iraniani hanno deciso di sospendere volontariamente e temporaneamente l’arricchimento dell’uranio nel novembre del 2004. Soltanto nei primi mesi del 2005 gli E-3 hanno ottenuto l’avallo dell’Ue e l’appoggio degli Stati Uniti. Tuttavia, pochi mesi dopo, nell’agosto 2005, l’Iran ha ripreso le attività preliminari all’arricchimento dell’uranio in alcuni suoi impianti provocando l’interruzione del negoziato con gli E-3.

D’altra parte, negli stessi mesi si apriva una nuova fase nella politica iraniana con il fallimento del movimento riformista e l’inasprimento delle posizioni conservatrici in seguito alle elezioni parlamentari del 2004 e presidenziali del 2005. La questione nucleare era divenuta per la leadership iraniana sempre più elemento di coesione interna e soggetto di discorsi retorici di politica estera.

E’ proprio nell’autunno del 2005, nel momento in cui il negoziato appariva compromesso e l’iniziativa europea priva di seguito, che la diplomazia italiana ha condotto una serie di colloqui informali. Secondo un articolo apparso sull’Asia Times il 7 settembre 2005 “Iran Knocks Europe Out”, le autorità iraniane hanno fatto pressioni sui paesi non presenti ufficialmente nel negoziato perché presentassero proprie proposte. Il governo italiano sarebbe intervenuto presso mediatori russi sostenendo iniziative alternative. Ciò avrebbe spinto il Presidente Putin ed il Ministro degli Esteri Sergey Lavrov a presentare la nota proposta russa: permettere all’Iran di arricchire l’uranio in territorio russo. Questo attivismo diplomatico dimostrerebbe l’interesse italiano di entrare a far parte ufficialmente del negoziato sul nucleare iraniano sostenendo nuove concessioni.

La svolta del negoziato
Tuttavia, la vera svolta italiana nel negoziato sul nucleare iraniano c’è stata con il deferimento dell’Iran al Consiglio di sicurezza dell’Onu nel febbraio del 2006 e l’insediamento del governo Prodi. Lo scorso 31 luglio, il Consiglio di sicurezza dell’Onu ha approvato la Risoluzione 1696 che chiede all’Iran di cessare l’arricchimento dell’uranio, facendo richiamo al capitolo VII art.41 della Carta Onu, che prevede la possibile imposizione di sanzioni. Un’importante novità è venuta, però, dalle dichiarazioni degli Stati Uniti. Si sono detti pronti, infatti, al negoziato diretto con l’Iran ponendo come precondizione la sospensione dell’arricchimento dell’uranio. Nonostante un negoziato diretto tra le parti costituirebbe un vero segno di discontinuità, non sono ancora chiare le concessioni che gli Usa sono disposti a fare alle autorità iraniane.

Negli stessi mesi il governo Prodi ha mostrato insofferenza per l’esclusione dell’Italia dalle iniziative negoziali. Sono stati così intensificati gli incontri bilaterali. Dal 21 giugno sino ad oggi, il Ministro degli Esteri D’Alema ha visto due volte Ali Larijani, capo negoziatore iraniano, varie volte il Ministro degli Esteri iraniano Mottaki. Allo stesso tempo, il Presidente del Consiglio Romano Prodi ha incontrato Larijani e ha avuto un colloquio con il Presidente iraniano Ahmadinejad il 20 settembre alle Nazioni Unite.

I due leader italiani si sono espressi, poi, a sostegno dell’iniziativa negoziale di Solana, che aveva accompagnato i colloqui del gruppo di contatto sin dalla sua formazione e che ha acquisito nelle ultime settimane, come rappresentante per la politica estera europea, la funzione di unico interlocutore europeo nelle ultime fasi negoziali. Inoltre, secondo fonti diplomatiche francesi, l’Italia ha partecipato inviando emissari all’incontro G-5+1 (i membri del Consiglio di sicurezza e la Germania) del 7 settembre a Berlino. Il Ministro degli Esteri D’Alema ha, poi, partecipato al successivo incontro del 20 settembre a New York del G-5+1 trasformandolo di fatto in G-5+2.

A questi elementi bisogna aggiungere i continui colloqui che l’Ambasciata italiana a Teheran tiene con i capi negoziatori e le principali autorità iraniane. L’iperattivismo delle autorità italiane chiarisce, perciò, la posizione da protagonista che l’Italia vorrebbe avere in futuri negoziati. L’Italia, nel caso in cui fossero imposte sanzioni all’Iran per la questione nucleare, avrebbe un danno economico rilevante e si allontanerebbe da un paese con cui ha buoni rapporti e a cui, mai, neppure negli anni della Rivoluzione, ha negato il suo supporto. Il governo italiano ha l’interesse a che ciò non avvenga e possiede gli strumenti per sostenere nuove proposte e convincere le autorità iraniane a dare un segno di discontinuità in questa fase critica.