sabato 26 febbraio 2011

Il venerdì di piazza Tahrir


Casse e altoparlanti sono sistemati dove Abou Tarek vende il koshari: la gente festeggia come nei matrimoni un mese dalla Rivoluzione egiziana del 25 gennaio. Da Via Champollion i controlli dei militari per entrare nella piazza sono blandi. Nei pressi del museo egizio, i marciapiedi non esistono più perchè ogni pietra è stata staccata e lanciata nei giorni della lotta tra manifestanti e gruppi proMubarak. Tahrir sembra un souk di bandiere, gadjet inneggianti all’orgoglio nazionale, carretti di venditori di patate americane. Circolano vari documenti di gruppi politici o movimenti organizzati. “Siamo arrivati da Suez questa mattina al’alba. – dice Sayed, operaio di una delle città dove nei giorni della rivolta gli scontri sono stati più duri – Non sappiamo quanti morti abbia fatto la rivoluzione, ma sentiamo ancora il pericolo. Le scuole non riapriranno. Non ci fidiamo di Shafiq.” Lo stesso sentimento traspare dalle parole di donne e uomini che si alternano sui piccoli palchi della piazza sistemati all’ingresso di Via Mohammed Mahmoud, all’imbocco di Kasr al Aini, nei pressi del centro amministrativo (Mogamma). Leggono poesie in memoria dei ragazzi uccisi nelle manifestazioni: Saleh Zahran e Rami Khaled. I rassembramenti sono molto eterogenei. Tra i manifestanti vicini a Kifaya! e al movimento “sei aprile”, un suonatore di oud intona le canzoni nazionaliste di Sayed Derwish. “Sono stato in piazza Tahrir dal 27 gennaio per una settimana- racconta Mohammed, insegnante - Mi hanno lanciato pietre, sono pieno di lividi”. E riguardo all’esercito al potere, sostiene: “non può durare a lungo. Vogliamo un leader che venga dal popolo. Nessuno appoggia Mubarak da quando si sa quanto è ingente la sua ricchezza all’estero”.  “Oppure un governo di tecnocrati che prepari le elezioni – aggiunge risoluto Bahaa – Shafiq e questo governo sono stati nominati da Mubarak, come possono portare il cambiamento?” Tra loro ci sono molti Fratelli musulmani. Alcuni portano cartelli per chiedere la liberazione di prigionieri politici accusati di aver partecipato all’assassinio di Sadat, come Nabil Magrah. Anche di fronte alla Lega araba sfilano centinaia di persone, che sventolano la bandiera libica, bandita da Gheddafi nel 1969. “Siamo affranti da quello che sta succedendo in Libia – racconta Walaa, giovane attivista – E poteva accadere lo stesso in Egitto. Ora migliaia di egiziani fuggono dal Paese e attraversano il valico occidentale di Salloum, accusati di fomentare le proteste.”
In questa “rivolta senza leader”, com’è stata ribattezzata dai giornali egiziani, i Fratelli musulmani hanno annunciato la formazione di quattro diversi gruppi politici. El Arian, portavoce dei Fratelli musulmani, medico riconosciuto per le sue posizioni coraggiose in materia di educazione e di sostegno ai giovani, ha annunciato la nascita di un nuovo partito che si chiamerà Libertà e Giustizia. Mentre altre correnti interne alla confraternita stanno formando tre diversi gruppi. Avrebbe finalmente ottenuto la legalizzazione il partito moderato di centro Wasat, la cui piattaforma politica venne presentata negli anni ’90, ma non ottenne un riconoscimento ufficiale. E così gli storici oppositori del progetto hanno presentato due nuove sigle: il Partito delle Riforme e il Partito per un Egitto libero, che potrebbe essere guidato da Abdullah al Ashaal, vicino all’ex ministro dell’interno. I temi del contendere riguardano la funzione di partito politico, il ruolo della legge islamica nello statuto del partito, i rapporti con la moschea di Al Azhar, la possibilità che donne o copti accedano alla carica di presidente. Tutti argomenti che sembravano parzialmente superati negli anni della cooptazione all’interno del regime.
Ma l’incognita principale è cosa farà l’esercito. Ha mandato per tutta la giornata messaggi che incitavano la gente a rimanere a casa, a riprendere a lavorare e non scioperare. Ma questo non è servito a fermare la folla. I militari continuano a presentarsi con un volto estremamente popolare e fraterno verso i manifestanti. Questo potrebbe lentamente avvicinare l’Egitto al modello turco in un percorso verso la democratizzazione e l’inclusione dei movimenti islamisti. Ma anche degenerare verso l’instabilità pakistana, dove la giunta militare ha sfruttato i gruppi islamisti, generando non poca insicurezza interna.

Giuseppe Acconcia

giovedì 24 febbraio 2011

Il Cairo è ancora in piazza

Le strade egiziane sono ancora in fermento. Alcune migliaia di cristiani copti si sono riuniti in piazza Tahrir per protestare contro il ferimento da parte dell’esercito di 6 monaci nel monastero dedicato a San Bishoy. Mentre prosegue il flusso di profughi egiziani provenienti dalla Libia attraverso il valico di Salloum. Infatti, Gheddafi ha accusato proprio gli egiziani e i tunisini residenti in Libia di fomentare le proteste. Le manifestazioni al ministero degli Interni di ieri hanno fatto due morti tra gli ex poliziotti. Secondo la stampa egiziana, ad aprire il fuoco contro i manifestanti, che hanno appiccato un incendio nei pressi del ministero, sono state le forze di sicurezza impegnate a difendere il palazzo. Inoltre, il rimpasto di governo voluto dalle gerarchie militari ha determinato le dimissioni tra gli altri dei ministri del petrolio e dell’industria. Molte strade del Cairo sono chiuse. I militari stazionano con i carriarmati bloccando la circolazione sulla Corniche nei pressi della tv di stato, attorno alla caserma di Abdin, al ministero degli interni, dei servizi sociali, alla banca centrale e al museo islamico. Vari posti di polizia risultano incendiati, in particolare nel quartiere di Sayeda Zeinab.
L’esercito continua a presentarsi con un volto estremamente popolare e fraterno verso la folla dei manifestanti. Questo potrebbe lentamente avvicinare l’Egitto al modello turco in un percorso verso la democratizzazione e l’inclusione dei movimenti islamisti. O degenerare verso il modello pakistano. In quel caso la giunta militare ha sfruttato i gruppi islamisti, generando non poca insicurezza interna. E continua la resa dei conti con gli ex sostenitori del presidente uscente. In molti quartieri la polizia è assente dalla fine di gennaio e le squadre di malvimenti e mercenari continuano ad aggirarsi per le strade. Varie sono le notizie di morti e sparatorie nel quartiere di Dar el Salam. Mentre proseguono gli scioperi: nei giorni scorsi sono stati fermi i mezzi pubblici e il Canale di Suez funziona solo in parte. Continuano gli scioperi delle industrie tessili e degli agricoltori. E come se non bastasse la Borsa è ancora chiusa e il turismo è fermo. E così la rivolta egiziana prende la forma sempre di più di un movimento per i salari più che per il pane.
E in questa “rivolta senza leader”, come è stata ribattezzata dai giornali egiziani. El Arian, portavoce dei Fratelli musulmani, ha annunciato di avere l’intenzione di formare un partito che si chiamerà Libertà e Giustizia. Altre correnti interne alla confraternita formerebbero tre diversi gruppi: Wasat, il Partito per un Egitto libero e il Partito delle Riforme. Mentre la confraternita insiste sulla necessità di una revisione del trattato di pace con Israele che “renderebbe l’Egitto più forte”. Sebbene gli apparteneti ai Fratelli musulmani si siano presentati divisi a questa ondata di proteste, potranno sfruttare ora l’ondata di islamizzazione dal basso diffusasi in Egitto a partire dal 2001 e in seguito alla politica americana in Medio Oriente durante la presidenza Bush jr, che ha determinato una diffusione senza precedenti del velo per le donne e un incremento dei partecipanti alle preghiere. In concomitanza ad un processo di islamizzazione dall’alto che ha portato alla costruzione di nuove moschee e alla cooptazione degli islamisti all’interno del regime. E quindi, più che una revisione dei trattati potranno essere ridiscusse le questioni dei campi profughi, dei rifugiati politici, del confine di Rafah e della militarizzazione del Sinai. Questo basta a mettere in subbuglio l’intera regione. Al confine tra Egitto e Israele ieri è stato ucciso un poliziotto egiziano. Non solo, lì sono dispiegati i carriarmati degli eserciti dei due Paesi e, nei giorni scorsi, hanno raggiunto il Mediterraneo, dirette verso le coste siriane, due navi militari iraniane.
D’altraparte, i componenti del governo Mubarak in carcere, l’ex ministro dell’Interno, dell’Agricoltura e del Welfare scaricano le loro responsabilità sull’ex presidente. In particolare, sembra sempre più grave la posizione del primo fra questi, Habib Adly, accusato anche di aver perpetrato l’attentato di Alessandria dello scorso 7 gennaio. E così ha destato scalpore una foto dei ministri in prigione, apparsa ieri sui principali quotidiani egiziani. Mentre il sistema giudiziario ha mosso gravi accuse a Gamal Mubarak in merito alla gestione delle imprese nazionalizzate e alle punizioni inferte a giornalisti indipendenti. In questo clima, prosegue il dibattito della gente comune sulle conseguenze politiche e sociali della rivolta, con in mente le immagini della Libia e la caduta dei regimi comunisti nel 1989.

Giuseppe Acconcia