venerdì 19 febbraio 2021

Libia, dieci anni dopo: tra caos, milizie e business delle migrazioni

di Giuseppe Acconcia

Festeggiamenti in piazza dei Martiri a Tripoli hanno accompagnato i dieci anni dalle prime manifestazioni dei ribelli di Bengasi, capoluogo della Cirenaica, il 17 febbraio 2011, che hanno sancito la fine dell’era Gheddafi. Eppure, come per altre “primavere arabe”, anche in Libia c’è molto poco da festeggiare.

Dopo dieci anni il paese è nel caos, è uno stato fallito, in mano a migliaia di miliziani, impegnati in una guerra per procura infinita tra i rimanenti del jihadismo che ha incluso anche lo Stato islamico (Isis), la guerra per il controllo dei terminal petroliferi e il business delle migrazioni che continua ad arricchire trafficanti senza scrupoli. «Sono stati dieci anni di uccisioni e paura. Tutto questo deve finire», ha dichiarato un manifestante in piazza dei Martiri a France24.

Da dieci anni ostaggio delle milizie 

E così, alla vigilia di questo anniversario che ha dato il via a dieci anni di instabilità per il paese ricco di petrolio, il Segretario generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres, oltre a chiedere il rispetto del cessate il fuoco, raggiunto lo scorso ottobre, aveva auspicato il monitoraggio e il contenimento della presenza di miliziani civili e militari.

Secondo l’ex inviata delle Nazioni Unite per la Libia, Stephanie Williams, sarebbero almeno 20mila i militari stranieri e i mercenari a praticare una “scioccante violazione della sovranità libica”. Questo è particolarmente valido per le città di Derna e Sirte.

Soprattutto la città natale del colonnello, Muammar Gheddafi, è stata tra i centri della presenza di fuoriusciti jihadisti dal conflitto in Siria e il cuore dell’alleanza con i rimanenti del vecchio regime che mai hanno accettato la fine tragica dell’ex uomo forte del paese.

A sottolineare i “progressi”, fatti negli ultimi mesi e in attesa delle elezioni politiche che si dovrebbero svolgere entro dicembre 2021, ci ha pensato anche il nuovo inviato speciale delle Nazioni Unite della missione in Libia (Unsmil), Jan Kubis, che ha visitato Tripoli per la prima volta dopo il suo insediamento lo scorso gennaio, incontrando il premier del governo, riconosciuto dalla comunità internazionale, Fayez al-Sarraj.

Dopo l’incontro, al-Sarraj è riapparso sui media libici di ritorno da un breve viaggio a Roma dove ha subito un’operazione, durante il quale ha delegato temporaneamente i poteri al suo vice, Ahmed Maitig. 

I disastrosi attacchi della Nato, guidati da Francia e Gran Bretagna nell’agosto del 2011 hanno aperto alla spaccatura del paese fino alla cattura e all’uccisione di Gheddafi nell’ottobre dello stesso anno, in circostanze ancora da chiarire.

Per superare l’attuale tripartizione tra Cirenaica, Tripolitania e deserto del Fezzan – culminata negli accordi di Skhirat, raggiunti in Marocco nel 2015 – e per dare seguito al cessate il fuoco dello scorso ottobre, un faticoso accordo per la formazione di un governo di unità nazionale – composto da un Consiglio di presidenza, che include tre membri, e un nuovo primo ministro – è stato raggiunto a inizio febbraio con la mediazione delle Nazioni Unite, dopo cinque giorni di colloqui a Ginevra.

Mohamed Younes Menfi, ex ambasciatore in Grecia, sarà la nuova guida del Consiglio presidenziale, mentre Abdul Hamid Mohammed Dbeibah, uomo d’affari di Misurata, sarà il primo ministro ad interim. I politici scelti per il governo di transizione, secondo l’accordo di Ginevra, non prenderanno parte alle elezioni di dicembre, mentre il 30% del nuovo esecutivo dovrebbe essere composto da donne. 

Una guerra per procura

La scorsa primavera, Usa e Russia avevano deciso di bloccare la risoluzione del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite per un cessate il fuoco globale per la pandemia da coronavirus, quando Guterres aveva chiesto di deporre le armi nei conflitti in corso. E così in Libia, nonostante la pandemia, sono continuati i combattimenti mentre si aggravava la crisi umanitaria, che ha coinvolto sfollati interni e rifugiati, nonostante la tregua preliminare, già discussa alla conferenza di Berlino del gennaio 2020.

A spartirsi il paese, ci sono da una parte l’esercito e le milizie di Misurata, appoggiate da Turchia e Qatar, che hanno sostenuto il governo di accordo nazionale di al-Sarraj, con sede a Tripoli, continuando a combattere contro il generale Khalifa Haftar, appoggiato invece da Egitto, Emirati Arabi Uniti, Russia – grazie ai contractors del gruppo Wagner – e dalle milizie 210 e 604.

La guerra per procura di Turchia e Russia e l’intenzione di spartirsi il paese da parte delle due grandi potenze regionali nascondono due idee diverse di Libia, costrette a dialogare dopo i tentativi di riavvicinamento tra Arabia Saudita e Qatar: una, radicata nelle milizie di Misurata e nel sogno del presidente turco Recep Tayyip Erdogan che la fine di Gheddafi abbia sancito una svolta verso l’islamismo politico a Tripoli, e l’altra, sostenuta senza tregua dal presidente russo Vladimir Putin, che vede la Cirenaica come un’estensione del regime militare del Cairo.

E così non si contano ormai i tentativi degli ultimi anni di conquistare Tripoli lanciati dal nemico-amico di Gheddafi, il generale Khalifa Haftar, che aspirando a controllare il fragile parlamento di Tobruk, ha provato ad arrivare fino alla città di Tarhuna, 70 chilometri a sud-est di Tripoli, riuscendo a controllarla per alcune settimane grazie all’accordo con i fratelli Kani, coinvolti in casi di criminalità e corruzione.

Grazie al sostegno turco, di miliziani turcomanni e siriani, al-Sarraj ha tentato di rafforzare invece il suo controllo sulla Tripolitania, incluso l’aeroporto di Mitiga. Nonostante questo, Haftar ha tentato più volte lo scorso anno di attaccare il centro di Tripoli, innescando la reazione dell’esercito di al-Sarraj che è avanzato verso il confine con Tunisia e verso Sirte, mentre diminuivano i droni cinesi Wing Loong, controllati dagli Emirati, nei cieli di Tripoli e Misurata, e aumentavano gli aerei turchi senza pilota Bayraktar.

Il business delle migrazioni

A fare le spese del caos che vige nel paese sono come sempre prima di tutto i migranti. Con il fallimento delle missioni europee Frontex, EuNavforMed e Sophia, criminali e trafficanti sono stati accreditati da molti paesi europei, Italia in primis, mentre il paese diventava una prigione a cielo aperto e i centri di accoglienza locali venivano trasformati in luoghi di tortura per rifugiati e migranti.

Persone che provengono dal Mali e da altri paesi dell’Africa occidentale, o in fuga dall’Eritrea, o profughi siriani e palestinesi i cui documenti sono stati strappati dal generale egiziano Abdel Fattah al-Sisi, e tacciati al Cairo di essere oppositori politici e sostenitori dei Fratelli musulmani.

I miliziani hanno iniziato a gestire il passaggio dei migranti dai valichi di frontiera e a vendere per migliaia di euro posti in imbarcazioni fatiscenti che hanno trasformato il Mediterraneo in un cimitero per migranti.

L’ultima emergenza è di pochi giorni fa, quando un’imbarcazione è affondata al largo della Tunisia, causando un morto e 22 dispersi, mentre Open Arms in meno di 24 ore ha tratto in salvo prima 40 e poi 106 migranti. Soltanto la scorsa settimana sono stati circa 1.500 i migranti fermati dalla corrotta guardia costiera libica e altri 500 sono sbarcati a Lampedusa.  


sabato 3 febbraio 2018

Tutta la verità sull'ultimo articolo di Giulio Regeni


di Giuseppe Acconcia
Conobbi Francesco De Lellis in occasione di un incontro sulla Tunisia al MAAM, uno spazio culturale nella periferia di Roma, ad inizio 2015. Alla fine del dibattito mi parlò della sua tesi di dottorato sui sindacati dei contadini in Egitto e della sua imminente partenza per il Cairo. Gli dissi che il tema mi sembrava molto interessante perché si trattava, anche secondo me, di uno dei risultati più significativi delle rivolte del 2011. Aggiunse che avrebbe voluto proporre degli articoli per il manifesto e gli dissi che mi avrebbe fatto piacere leggerli e ne avrei parlato con la redazione. Sin dal febbraio 2011 ho lavorato come corrispondente del giornale dal Cairo e sono stato accreditato per il manifesto alla televisione di Stato egiziana (Maspiro).
Nel luglio di quello stesso anno, in occasione del secondo anniversario dal colpo di stato egiziano del 2013, Francesco De Lellis e Gianni Del Panta mandarono il loro contributo dal Cairo, che venne pubblicato in quei giorni, sullo stato delle fragili lotte sindacali egiziane in un contesto di grave repressione. Anche Gianni era un dottorando che si occupava dei movimenti fioriti dopo le rivolte del 2011 e stava trascorrendo un periodo di ricerca al Cairo. Conobbi Gianni ai margini della presentazione del mio libro “Egitto. Democrazia militare” in occasione del Festival Middle East Now a Firenze. Anche lui mi raccontò che si stava occupando di sindacati in Egitto, Tunisia e Algeria per la sua ricerca all'Università di Siena. Gli parlai di Francesco e gli dissi di contattarlo.
Nell'autunno del 2015, Francesco De Lellis mi scrisse per proporre un secondo articolo, sempre scritto a quattro mani, questa volta con un altro dottorando, Giulio Regeni. Mi disse che Giulio stava svolgendo un dottorato di ricerca per l'Università di Cambridge e anche lui si stava occupando dei sindacati egiziani. Questa volta mi disse che avrebbero preferito pubblicare l'articolo con uno pseudonimo e che avrebbero preso parte ad una riunione sindacale nel dicembre dello stesso anno al Cairo. Gli chiesi perché avrebbero voluto usare uno pseudonimo e perché non lo avevano chiesto in precedenza. Mi disse che non si trattava di una paura specifica ma di un timore generico legato alla situazione di repressione in Egitto.
Francesco mi inviò l'articolo, si trattava di un ottimo lavoro. E quindi lo mandai in redazione al manifesto. L'articolo rimase per alcune settimane in coda al desk del manifesto. In quel momento nessuno si stava più occupando di repressione in Egitto. Sollecitai molte volte Simone Pieranni, al desk esteri del manifesto, perché pubblicasse l'articolo. Alle richieste di Francesco De Lellis sulla mancata pubblicazione risposi che in ogni caso l'articolo sarebbe uscito al massimo il 25 gennaio 2016 in occasione del quinto anniversario dalle proteste di piazza Tahrir del 2011 al Cairo. Francesco mi disse che avrebbe provato a inviare l'articolo anche ad altri siti online che avrebbero forse pubblicato il reportage anche prima del 25 gennaio.
Nel frattempo, in una chat con Gennaro Gervasio, che si occupa da anni della sinistra egiziana, anche lui mi parlò dell'ottimo lavoro di Francesco e Giulio. In particolare mi raccontò di quanto fosse meticolosa la ricerca di Giulio. Proprio la sera in cui ci scrivemmo Francesco e Giulio sarebbero andati a trovarlo a casa perché non si sentiva bene.
Quando il 31 gennaio 2016 venne diffusa pubblicamente la notizia della scomparsa, avvenuta sei giorni prima, di Giulio Regeni, ricordai ancora una volta al vicedirettore del giornale, Tommaso Di Francesco, che avevamo l'articolo di Francesco e Giulio in attesa di pubblicazione.
Francesco e Gennaro mi chiesero di mantenere un profilo basso in attesa di notizie sulla scomparsa di Giulio Regeni. Ma con il passare dei giorni il clima era sempre più fosco. Il giorno dopo il ritrovamento del cadavere di Giulio che avvenne il 3 febbraio 2016, esattamente due anni fa, Tommaso Di Francesco mi disse che l'articolo sarebbe stato pubblicato. Confermò che sarebbe uscito anche dopo la diffida a pubblicare che arrivò il giorno stesso in redazione da parte dell'avvocato della famiglia Regeni. Il 5 febbraio 2016, uscì sul manifesto “In Egitto la seconda vita dei sindacati indipendenti” a firma di Giulio Regeni. Venni a sapere in seguito che una prima versione dell'articolo era già stata pubblicata a gennaio dal sito Nena News di Michele Giorgio, giornalista del manifesto.
L'unica cosa che mi sentii di dichiarare dopo aver appreso la terribile notizia della sua morte ad una giornalista di Radio Popolare che mi interpellò fu proprio che Giulio Regeni: "Aveva paura per la sua incolumità". Arrivai a questa conclusione perché quando inviarono il loro articolo Giulio e Francesco chiesero di usare uno pseudonimo, cosa che non era avvenuta in precedenza.

Il 25 febbraio 2016 mi recai dagli inquirenti a Roma per consegnare le 16 pagine di chat che avevo avuto nelle settimane precedenti con Francesco De Lellis in merito all'articolo che proposero al manifesto. Dopo la mia decisione di sfidare quel contesto di silenzi e paure e poco prima di rilasciare un'intervista alla Rai sul caso Regeni, Tommaso di Francesco mi chiese di non fare mai menzione delle responsabilità italiane. Credo che a due anni dal ritrovamento del cadavere del brillante ricercatore friulano anche questa mia esperienza personale sia importante da raccontare per spiegare quanto siano state forti le pressioni italiane affinché non si facesse troppo “rumore” con il Cairo dopo la scomparsa di Giulio.

martedì 28 marzo 2017

Il Grande Iran

Trovate in tutte le librerie italiane e su tutte le principali piattaforme online il mio ultimo libro: il Grande Iran (Exorma, 2016), prefazione di Mouhammad Tolouei. Da non perdere!