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venerdì 17 febbraio 2012

Servillo e “La trilogia della villeggiatura"
















I preparativi per l’imminente vacanza in campagna coinvolgono sin nelle più intime scelte di vita i personaggi delle commedie di Goldoni, adattate da Toni Servillo ne “La trilogia della villeggiatura” di scena fino al 6 gennaio al teatro Mercadante di Napoli.

In una casa di campagna, uomini e donne giocano a carte con i propri sentimenti. Senza adattarsi alla nuova vita che la vacanza potrebbe concedere, i nobili riproducono, in mollezze e pranzi pantagruelici, le civetterie e gli intrighi delle giornate cittadine. I protagonisti del racconto amano apparire, cucire e scucire vicende sentimentali impossibili, per disparità di censo, di età o di amore non corrisposto. La campagna goldoniana è la periferia della città, un luogo in cui lo svago si trasforma nelle difficoltà dell’esistenza. Questa ambientazione sentimentalista sembra più vicina alle nevrosi moderne del tempo libero rispetto alla decadenza metafisica delle vacanze pietroburghesi dei romanzi russi.

“L’ansia per la partenza, il tempo disteso delle conversazioni estive, a cui seguono i silenzi malinconici del rientro in città, hanno una scansione temporale, un movimento emotivo, un migrare sentimentale fatto di attese e delusioni, di speranze e conflitti, di ottimismo ed infelicità. - ammette Toni Servillo - I personaggi descrivono giorni animati da una ricerca ostinata della felicità, dall’incapacità di intravedere novità che sostituiscano le abitudini”.

I bravissimi attori, tra cui Andrea Renzi, Paolo Graziosi, Tommaso Ragno, Eva Cambiale, Anna Della Rosa, i costumi di Ortensia De Francesco e le scene di Carlo Sala creano un’atmosfera corrispondente alle intenzioni farsesche dell’adattamento unitario di Servillo. Tuttavia, la mancanza di una concreta ricerca linguistica e la dilatazione del tempo del discorso sottraggono ritmo, nella seconda parte, alla costruzione dell’intrigo e all’azione degli attori.      

Giuseppe Acconcia
La Sicilia 2008

  

mercoledì 15 febbraio 2012

Napoli, l'involontaria città del teatro


Tra il Real Albergo dei Poveri di Piazza Carlo III, la Sala del Lazzaretto in Via dei Tribunali, la Darsena nei pressi del porto e i teatri della città, prosegue a Napoli il Festival del teatro. Il dubbio che il vero spettacolo sia nei discorsi della gente colpisce chi cammina per le strade di questa città. Ognuno qui è costretto a tirar fuori la propria personalità, ma contemporaneamente ad esserne schiacciato. E’ così che Anna Maria Ortese, ne “Il mare non bagna Napoli”, descriveva l’accettazione di una realtà di morte da parte dei cittadini napoletani, privi di ogni minima volontà di riscatto. Roberto Andò, noto regista siciliano, ripercorrendo lo stile documentaristico della Ortese, ha tentato di vedere il riflesso della città della “monnezza” nella Napoli del dopo guerra. “Proprio come se nulla fosse avvenuto”, messo in scena sulla banchina della Darsena Acton con Anna Bonaiuto, Maria Nazionale, Vincenzo Pirotta e la partecipazione di quasi cento attori, ridefinisce gli spazi della città attraverso i frammentari comportamenti di personaggi di vari quartieri ed estrazioni, uniti soltanto dall’instabile adesione ai propri ruoli sociali. “Piu’ che oggetti, io installerò persone chiuse nelle loro stanze per una città ridotta a paesaggio.- dice Roberto Andò – Il paesaggio della città rinvia, da una parte, all’irredimibile stato del sud, dall’altra, segnala una difficoltà del teatro a narrare il crimine che abita Napoli”. L’emigrazione degli anni ’40 viene accompagnata dal pubblico in una lunga processione guidata da una piccola banda e da giaculatorie siciliane che uniscono il destino di Napoli alla sofferenza della Sicilia.

Ne “Cosa deve fare Napoli per rimanere in equilibrio sopra un uovo” di scena nella Sala del Lazzaretto in Via dei Tribunali per la regia del colombiano Enrique Vargas, gli spettatori vengono accompagnati tra i vicoli della città, i volti, le musiche, per una esperienza visiva, tattile e olfattiva. Il buio determina uno spaesamento colmato da richiami precisi alla quotidianità. La compagnia de Los Sentidos ha vissuto per alcuni mesi a Napoli, svolgendo vari laboratori. “Si potrebbe dire che le città hanno un carattere, una personalità, che permette loro di essere coprotagoniste della nostra stessa vita - sostiene Enrique Vargas -. Ci sono momenti e spazi della nostra vita in cui percepiamo che la città ci paralizza, non sostiene la nostra motivazione, non ci stimola. Ci sono dei momenti in cui sentiamo che la città incoraggia la nostra relazione con il mondo, con gli altri, con noi stessi”. “Una delle cose che ci ha piu’ impressionato di Napoli – continua Vargas - è stato scoprire come la città abbia convertito il poeta Virgilio nel suo mago. Il mito del Castel dell’Ovo racconta che il Castello si sostiene su un uovo che Virgilio collocò nelle sue fondamenta. Se l’uovo si rompe non solo il Castello crolla, ma con esso tutta la città”.
Con “Don Giovanni o sia Il convitato di pietra” di Giovanni Bertati, andato in scena al  Teatro Instabile, in uno spazio piccolo ma incantevole e con “Viaggio, naufragio e nozze di Ferdinando principe di Napoli” di Carlo Presotto, andato in scena nell’immenso edificio del Real Albergo dei Poveri, riaperto al pubblico proprio in occasione del Festival del Teatro sono tornate protagoniste le guarattelle e l’arte dei burattinai. Nel primo caso, uno spettacolo di sole donne ha riproposto la vicenda di Don Giovanni, avvicinando i pupi al canto d’opera, nel secondo, la storia di Ferdinando, naufragato di ritorno dalla Tunisia, ha fatto rivivere la magia degli spettacoli di marionette itineranti.
Tuttavia, nonostante il merito di aver aperto bellissimi luoghi della città, sono finora mancati al Festival del teatro di Napoli i principali registi italiani legati per motivi diversi a questa città quali: Martone, Latella e Del Bono. Non solo, è mancato un coinvolgimento dal basso delle mille realtà teatrali che nascono in ogni quartiere e che spesso sono ispirate dai temi dell’esclusione sociale e della legalità. Nei pressi dell’Auditorium della Rai, ho incontrato Giovanni Meola, impegnato nei suoi progetti di teatro e legalità nelle scuole della periferia di Napoli, dopo la messa in scena dei suoi ultimi lavori “L’infame” e “Il sulfamidico”. “Il mio percorso  nasce dal fatto di essere all'interno di un mondo che propone ogni giorno mille storie violente, tenere o paradossali, storie che riguardano tutti per il fatto stesso di vivere qui – dice Giovanni Meola -. Ad un certo punto è come se sentissi che una data storia volesse essere raccontata, così come certi personaggi esemplari. E io non faccio altro che cercare di tradurre in dato teatrale l’insieme di storie e personaggi che si formano attraverso l’osservazione del microcosmo che mi circonda. Partendo da fatti di cronaca ricostruisco la realtà teatrale”.

Giuseppe Acconcia
La Sicilia
domenica, 15 giugno 2008

mercoledì 20 luglio 2011

''No time for art''

Egitto: con 'No time for Art' in scena al Cairo le voci di Piazza Tahrir
Testimoni raccontano a teatro arresti sommari e torture
Il Cairo, 24 giu. -
(Aki) - Esordisce al teatro Rabawet, al centro culturale 'Town House'
del Cairo, lo spettacolo 'No Time for Art', che dà voce ad attivisti
che raccontano i giorni della protesta di piazza Tahrir. ''In quelle
manifestazioni c'era pochissimo spazio per l'arte - spiega ad
AKI-ADNKRONOS INTERNATIONAL Laila Soliman, regista dello ospettacolo -
quindi, nel mio spettacolo, quattro attori raccontano i loro giorni in
piazza Tahrir e nessuno spazio viene lasciato al musicista, che suona
solo per pochi secondi accordi stonati''. I quattro attori-attivisti
seduti sulla scena raccontano i momenti salienti della rivolta,
denunciando i luoghi delle torture e della prigionia.
Particolarmente toccante è la testimonianza di Aly Sobhy, che racconta
come, il 9 marzo, sia stato colpito con un taser e torturato. ''Alcune
frasi si rincorrono e si concludono nelle parole di altri attori per
dare l'effetto della coralità che ha distinto l'azione degli attivisti
nei giorni delle rivolte'', continua la regista. ''La differenza tra
'No time for art' e gli altri spettacoli messi in scena in queste
settimane è che vengono raccontati i giorni di piazza con grande
sincerità'', racconta Aya, una delle attrici. ''Si entra nel teatro
attraversando una strada colorata dai graffiti di Ganzeer (disegnatore
arrestato per le sue critiche al Consiglio supremo delle Forze armate,
ndr) e ogni spettatore riceve una lettera che contiene il nome di uno
dei martiri, la sua età e il luogo della sua morte'', continua la
spettatrice. Sullo sfondo viene proiettato un video della tv di stato
egiziana risalente a prima delle dimisisoni dell'ex presidente Hosni
Mubarak, in cui i presentatori televisivi elogiano l'operato delle
forze di sicurezza nell'arrestare e catturare i manifestanti.
Gli attori proseguono raccontando gli arresti arbitrari di bambini e
scambiandosi i ruoli per esprimere un messaggio unico di denuncia e
descrizione della verità. ''Questa è una produzione a bassissimo
budget, che sarà messa in scena in altri teatri della città prima di
essere portata a Beirut'', continua la regista. Dopo i 18 giorni in
piazza Tahrir, si sono diffuse per le vie del Cairo rappresentazioni
teatrali, concerti di rapper e azioni di writer che hanno colorato le
vie della città. Giovani teatranti tengono spettacoli per strada o
leggono le loro storie in librerie e centri culturali. Sono nate
numerose compagnie indipendenti come Sabeel (fontana pubblica), Hala
(stato della mente), Soo'Tafahom (incomprensione), Hawasa
(allucinazione), Nas (gente) e Ana El-Hikaya (la storia sono io).
Raccontano la Rivoluzione attraverso le testimonianze di chi era in
piazza usando canzoni, poesie, mimo e danza.
(Acc/AKI)
Giuseppe Acconcia,
giugno 2011

sabato 16 luglio 2011

Questo buio feroce di Pippo del Bono


“Questo buio feroce” di scena al teatro Argentina per la regia di Pippo Delbono è un adattamento teatrale di performance in sequenza. Una voce fuori campo annuncia una storia di malattia e morte. E’ la voce di un regista-attore, narratore e deus ex machina. L’AIDS è una malattia come tante ma chi ne è colpito conquista uno stato di trasformazione continuo ed incomunicabile. Filiformi, zoppi, mostri seggono e attendono un attimo di gloria che li faccia sentire vivi. La malattia non è un morbo ottocentesco che affascina e avvicina alla decadenza. Qui è sinonimo di morte. La stessa morte che colpisce oggi Venezia, una città cadavere. Ecco, gli attori che sfilano sulla scena non sono malati ma cadaveri. Malattia che non colpisce i soli individui ma la società intera e le sue contraddizioni.

Le vicende a questo punto si divaricano. Una donna dell’Arkansas si interrompe nel racconto della sua banale vita mentre un travestito legge annunci erotici. Ma, prima che la fine sopraggiunga, resta la speranza di una serva salvata da una scarpa. Poi però, il nulla. Un lungo tavolo, due candele, cadaveri ed un uomo steso che parla nonostante la morte. L’uomo-regista-malato danza.

Una minima scenografia per un’ambientazione da Crimaster in un luogo metafisico. L’uso continuo di rimandi musicali risulta poco gradevole. La propensione ad una continua riproposizione di brani musicali ad effetto ricade sulla scena forzando i movimenti degli attori e banalizzando azioni intense. L’assenza di scrittura e di dialoghi nasconde un eccesso di terzomondismo ed un tentativo goffo di riprodurre anglofonia.

Attori disabili, folli e malati arricchiscono enormemente la scena.
I movimenti degli attori e la danza del regista sono degni di Pina Baush.

Giuseppe Acconcia,
La Casa Orca 2007

sabato 9 luglio 2011

Gomorra

Gomorra, il teatro civile di Saviano


“Gomorra”, adattamento teatrale del celebre libro di Roberto Saviano, è in scena al teatro Stabile Mercadante di Napoli fino al 18 novembre per la regia di Mario Gelardi. “Ci sono luoghi e situazioni - scrive Saviano - dove non è possibile pronunciare dei nomi, dove il solo fare il proprio lavoro inizia ad essere un elemento che espone al pericolo. Dove ciò che dovrebbe essere semplice come indicare un errore, segnalare un disastro, decidere di denunciare o soltanto dirlo, chiederlo, pretenderlo, comporta sacrificio. Rischio. Fuga. Pericolo di morte. Questo accade in Italia.”
Come la ricostruzione della tavolata della Mafia di Emma Dante in “Cani di bancata” ha riprodotto le piccole relazioni individuali che assurgono a comportamenti nazionali, così “Gomorra” restituisce chiarezza al fenomeno malavitoso inserendolo nelle attitudini quotidiane di affiliati ad ogni livello dei clan camorristici. Saviano (Ivan Castiglione), muovendosi a Casal di Principe sulle tracce degli affari del clan dei Casalesi alla ricerca di una verità talmente manifesta da essere continuamente negata, osserva le azioni di imprenditori, sarti (Ernesto Mahieux), piccoli teppisti (Adriano Pantaleo) e spacciatori (Francesco Di Leva). Così i dati del degrado della città di Napoli e la cruda contabilità dei 3700 morti per camorra dal 1979 riportano alla luce il marcio calpestato e taciuto. Il porto di Napoli diventa il centro del mercato nero nella periferia d’Europa, l’incrocio degli affari delle merci cinesi e dei traffici di droga. Mentre i confini dei clan malavitosi si dilatano verso Scozia, Spagna e Polonia, l’ambiente cittadino decade a scenario immutabile di piloni e di cemento, usati per opere eternamente incompiute, che nascondono rifiuti tossici, provenienti dalle regioni del nord, anche nel fetore delle discariche della carta usata in Veneto per “pulire le mammelle di vacca dopo la mungitura”.
“Mi resi conto che avevo la possibilità - dichiara Saviano - non soltanto di guardare il vicolo, il territorio, la provincia, la camorra, ma, attraverso la feritoia del crimine, di guardare l’intera economia e l’intero mondo.” I due livelli, quello microscopico delle piccole aspettative di un ragazzo, di un sarto, di uno scrittore, coinvolti in meccanismi intoccabili loro malgrado e per pura necessità, si mescolano agli interessi globali di boss spregiudicati, veri economisti, che del crimine fanno un’impresa legata a precise logiche di mercato. L’uso del dialetto, come lingua comune della tragica quotidianità, restituisce al napoletano la forza drammatica spesso resa caricatura altrove. I movimenti degli attori riproducono la prepotenza ossessiva dei piccoli camorristi che rimuovono nella passione per le armi e nella consapevolezza della morte i canti neomelodici che più li coinvolgono.
“Gomorra” scatta una fotografia talmente cruda e senza precedenti sullo stato dei clan camorristici e sulle loro infiltrazioni ad ogni livello da mantenere evidente efficacia anche nella schematica riduzione teatrale.

Giuseppe Acconcia
La Sicilia, 2007

sabato 2 luglio 2011

Maria Stuart di Friedrich Schiller

Maria Stuart, il dovere della ragion di stato


Il dramma “Maria Stuart” di Friedrich Schiller per la regia di Andrea De Rosa, prodotto dal teatro Mercadante di Napoli, è in scena fino al 18 novembre al Teatro Studio di Milano. Schiller ne “Lettere sull’educazione estetica dell’uomo” del 1795 anticipò il tema della tragedia “Maria Stuart” che scrisse cinque anni dopo. “Il godimento è separato dal lavoro, i mezzi dal fine, lo sforzo dalla ricompensa - scriveva Schiller -. Eternamente incatenato soltanto a un piccolo frammento del tutto, l’uomo foggia se stesso soltanto come un frammento; sentendo sempre il giro monotono della ruota che egli sta girando, egli non sviluppa mai l’armonia del suo essere, e invece di dar forma all’umanità che sta nella sua natura, egli diventa un puro e semplice calco della sua occupazione, della sua scienza”. Questa è la sorte dei due personaggi femminili protagonisti del testo di Schiller. Maria Stuart e la regina Elisabetta I, interpretate dalle perfette Frédérique Loliée ed Anna Bonaiuto, rappresentavano per fede e rivendicazioni dinastiche i due volti dell’Inghilterra del ‘500. Maria, giovane, cattolica, piena di passione, scozzese ma vissuta in Francia, accusata senza sufficienti prove dell’omicidio del primo marito e di tramare contro la vita della regina, scontava la sua pena nelle carceri inglesi. Elisabetta I, protestante, glaciale, era pronta ad ordinare la condanna a morte della cugina per la sua fede e le sue pretese ereditarie. Iniziò un lungo confronto a distanza attraverso uomini di corte quali Talbot, Leichester e Cecil che mediavano tra le due donne, talvolta con futili complotti, per ottenere una riconciliazione che salvasse la vita di Maria. Il fascino suggestivo che la Stuart per la sua tragica bellezza esercitava sugli uomini più cari ad Elisabetta acuì i timori di quest’ultima. In un breve incontro tra le due donne, Maria rinunciò alle rivendicazioni dinastiche, si dichiarò innocente e supplicò clemenza. Elisabetta le rimproverò l’infedeltà alla corona inglese suscitando l’ira e gli insulti di Maria. Così la regina, seppure dubbiosa, firmò l’atto di esecuzione della Stuart per ipocrita ragione di stato. La condanna venne eseguita in tutta fretta, mentre le tardive confessioni di testimoni dei fatti scagionavano Maria macchiando di infamia la decisione della sovrana. Elisabetta per aderire al dovere identitario della ragion di stato aveva fatto uccidere senza prove, una straniera e sua consanguinea colpevole soltanto di essere cattolica, giovane ed una possibile erede.
“Con i personaggi di Maria Stuart e Elisabetta I - dice il regista Andrea De Rosa - Schiller racconta il conflitto tra due società che trovano espressione nell’identità religiosa e attraverso questa si combattono sanguinosamente. Un’identità forte che si scontra inesorabilmente con il diritto. Elisabetta deve far uccidere Maria, se vuole continuare a regnare. Ha la forza per farlo ma non il diritto. Per affermare il suo potere deve ignorare i legami familiari, la sacralità dell’ospite, il diritto dello straniero. Sono proprio i rapporti tra diritto e forza a porre domande sulle loro drammatiche e attuali contraddizioni.”
La messa in scena dinamica con un piano avanzato (la prigione di Maria) raggiungibile dal palco (il palazzo di Elisabetta) crea un equilibrio generale nel confronto di due mondi antitetici, vicini, ma non comunicanti. Le scene minimaliste di Sergio Tramonti ed i semplici costumi di Ursula Patzak contribuiscono a creare un buio drammatico che illumina il confronto tra le due donne.


Giuseppe Acconcia
La Sicilia, 2007

domenica 26 giugno 2011

La realtà è un imbroglio di Luca Ronconi


“La realtà è un imbroglio”. Inventato di sana pianta ovvero Gli affari del barone Laborde
Il “fuori legge” tiene in pugno con le sue menzogne l’economia globale. E’ la vicenda del barone Laborde, l’efficace Massimo Popolizio, protagonista de “Inventato di sana pianta ovvero Gli affari del barone Laborde” di scena al teatro Mercadante di Napoli fino al 9 marzo. Dopo l’adattamento teatrale del “Professor Bernhardi” di Arthur Schnitzler, Luca Ronconi cura la regia della commedia di Hermann Broch, scritta nel 1934.
Il furbetto di turno, millantatore, mitomane e ruffiano, punta nel proprio fascino e nell’abilità di aggirare il limite tra realtà e irrealtà per arricchirsi. Laborde si muove nei locali asettici di un hotel di lusso, rincorrendo spregiudicati intrighi finanziari, truffe internazionali, intrecci erotici e drammi individuali. Conquista la fiducia di Seidler, Massimo De Francovich, ricco banchiere, che copre in colpevole buona fede i suoi loschi affari. Coinvolge nelle alterne sorti dei titoli petroliferi della “Teheran Oil Syndicat” anche le calcolate relazioni con Agnes, Pia Lanciotti, figlia di Seidler, e la Baronessa Stasi, la bravissima Anna Bonaiuto, che dimostra di superare tutti in astuzia e lungimiranza.
Nell’infinita “rincorsa del denaro”, i dialoghi richiamano i tratti brillanti del vaudeville. La messa in scena propone trovate di grande effetto, quali il buio interrotto da fioche luci evocative, il bianco accecante degli arredamenti interni, il piano rialzato costruito con un’architettura mobile. Le camere dei protagonisti si spostano l’una nell’altra, unite dalla deprimente realtà di individui, spogliati della propria umanità, e costretti ad un improbabile suicidio. Le scene minimaliste di Marco Rossi richiamano gli interni dei corti “Cremaster” di Matthew Barney. Per qualche minuto un black-out improvviso costringe gli attori a muoversi nel buio e ad inciampare in ostacoli insignificanti, mentre il barone Laborde compie nell’oscurità la sua ultima truffa prima di lasciare la scena.

Giuseppe Acconcia
La Sicilia, 2007

sabato 18 giugno 2011

Chantecler: messaggero della terra

Chantecler, il “messaggero della terra”


Dall’autore di Cyrano de Bergerac, Edmond Rostand, il teatro Mercadante di Napoli ha proposto per la prima volta in Italia, il dramma a colori Chantecler, con la regia di Armando Pugliese e la traduzione di Enzo Moscato. L’opera, presentata nel 1910 dopo 10 anni di silenzio dell’autore, ripropone l’infinito conflitto tra la luce del canto e l’ombra dell’istinto in forma di favola espressiva.
Il gallo Chantecler è l’unico uccello a precedere con il suo verso il sorgere del sole. Ma gufi, allocchi, pavoni, faraone e rigogoli, spinti da istinti di vendetta, violenza e tradimento lo costringono ad un combattimento che potrebbe decidere la usa fine. Gli animali tipizzati riproducono vizi e disuguaglianze sociali completamente umani. Rostand rivisita le commedie di Aristofane con sperimentalismo scenico e dialoghi crudi ma esilaranti.
L’ambientazione unitaria, ricca, surreale, molto apprezzata nei teatri europei della belle époque, resta intatta nell’adattamento di Pugliese. Per l’intero primo atto, una fitta rete sostituisce il sipario. Il palco avanzato dà la necessaria profondità scenica alle azioni dei 25 attori e dei 5 musici. Il potenziale impatto dell’imponente messa in scena viene, però, frenato da un uso troppo spesso inorganico e limitato della coralità mentre i singoli movimenti degli attori-animali sembrano di frequente poco armonici. I costumi dai colori sgargianti di Silvia Polidori, le maschere grottesche indossate dagli attori e le varie fonti di luce trasformano alcune scene in quadri di Ensor. Le musiche di Enzo Gragnaniello, eseguite dal vivo ed affiancate da campionature di ambiente e suoni di strumenti arcaici, rafforzano l’azione. Dialetti ed accenti ravvivano dialoghi a volte intervallati da anacronismi e conclusioni forzate. Un’epidemia decima gli animali della foresta mentre i fucili degli uomini cancellano il canto di Chantecler che, come la “neomelopea”, ha vita breve, dura quanto la fine di una notte che attende la nuova alba.

Giuseppe Acconcia
Rivista Lab, 2007

lunedì 13 giugno 2011

L'istinto teatrale di Napoli

L’istinto teatrale di Napoli


Dopo un’intensa quattro giorni di teatro, installazioni, laboratori, giovani compagnie e incantatori di serpenti si è concluso il prologo alla prima edizione del Festival del Teatro che si terrà a Napoli nel prossimo giugno. I tendoni allestiti nel porto, due gigantesche navi-ostello e i teatri della città hanno rievocato l’antico spirito farsesco partenopeo. Napoli ha un istinto teatrale: dai vicoli dei quartieri spagnoli dei dipinti di Caravaggio alle maschere della Commedia dell’Arte, dai drammi eduardiani ai più importanti registi italiani contemporanei quali Mario Martone, Pippo Delbono ed Antonio Latella che hanno lavorato per e con la città.
“Napoli è una città ferita il cui corpo sta male- dice Mario Martone intervenendo al festival -. Ci si attrezza alla perdita della speranza nella rete linguistica e di connessioni in cui si tengono i napoletani per non morire”. Martone ha iniziato il suo lavoro di regista teatrale a Napoli nel 1976 creando il gruppo Falso Movimento con gli esperimenti metropolitani di “Dallas 1983”, “Rosso Texaco” e “Tango glaciale”. Da questa esperienza è nata, dieci anni dopo, la compagnia Teatri Uniti che ha reso celebre Martone con film e documentari quali “Morte di un matematico napoletano”, “L’amore molesto” e “Caravaggio, ultimo atto” che hanno tutti Napoli come costante protagonista. Per questo prologo del Festival del Teatro Mario Martone ha curato “Falstaff. Un laboratorio napoletano” coinvolgendo in qualità di attori alcuni ragazzi detenuti sull’isola di Nisida. Falstaff, il brillante Renato Carpentieri, metà italiano e metà napoletano, è un perfetto compendio delle virtù e dei vizi della città. Dicendosi “vigliacco per istinto”, Falstaff sopravvive attraverso le menzogne trasformando l’istinto in dovere.
“Il successo dei festival europei come quello di Avignone - sostiene Pippo Delbono intervenendo al prologo - è possibile grazie ad un decentramento culturale che porta centinaia di persone a teatro anche nei piccoli villaggi francesi. I festival non si inventano né si impongono dall’alto. In Italia, infatti, si è arrestato il fiorire di compagnie teatrali degli anni passati.” Pippo Delbono ha iniziato a recitare proprio a Napoli alla fine degli anni ‘70. Deviando da un futuro da cadetto di Pozzuoli, Delbono ha lavorato come attore con le compagnie del Teatro Nuovo. Qualche anno dopo nel manicomio di Aversa, durante un laboratorio teatrale, Delbono ha conosciuto Bobò, un paziente più vivo dei “noiosi attori”, che da “Barboni” in poi è il protagonista dei suoi spettacoli. Ma non solo, la città è al centro di “Grido”, suo ultimo lungometraggio. Interamente girato a Napoli, ripercorre senza sceneggiatura e con slanci poetici i luoghi della sua vita nel tempo della città.
L’istinto teatrale di Napoli vive nella delusione di una realtà decadente a cui corrisponde una vivacità culturale che ha permesso l’assegnazione con merito del progetto per il festival del teatro con la necessità di trasformare lentamente il dovere dell’istinto nel sapere dell’istinto.

Giuseppe Acconcia
Lab, 2007

domenica 12 giugno 2011

Ubu Buur con Mandiaye N'Diaye e gli amici di Diol Kadd

Ubu buur, “Merdrasa” che festa in teatro!


Antonin Artaud riconobbe in Alfred Jarry il precursore di un nuovo teatro, capace senza parole di stravolgere il pubblico al punto di costringerlo nudo. E’ quasi questa l’atmosfera creata dalla compagnia del Teatro delle Albe di Ravenna e dalla regia di Marco Martinelli nell’adattamento dell’Ubu re o Ubu buur (re in wolof, lingua del Senegal), scritto da Alfred Jarry, appena quindicenne, e presentato a Napoli in occasione del Festival del Teatro.
Il teatro San Ferdinando, ristrutturato da pochi mesi, è di per sé un luogo assai bizzarro, incastrato tra palazzi di cui serve da fondamenta. Buio, luci accecanti e fumogeni disorientano all’ingresso lo spettatore, coinvolto già dalle prime danze degli attori, soprattutto giovani e piccoli contadini, tassisti e studenti del villaggio di Diol Kadd in Senegal, paese natale del protagonista Mandiaye N’Diaye (Padre Ubu) e da suoni e gesti della bravissima Ermanna Montanari (Madre Ubu), glaciale nel bianco del suo viso.
Padre Ubu, ucciso il Re Venceslao, elimina ad uno ad uno i suoi compagni di battaglia trasformandosi in un dittatore sanguinario. Ma Brughelao, figlio di Venceslao, è pronto a spodestarlo. La tragi-commedia del potere descrive la barbarie post-coloniale che dilania senza tregua non solo l’Africa, ma qualsiasi paese, o meglio un’indefinita “Polonia”. La preparazione e il debutto dello spettacolo nel minuscolo villaggio di Diol Kadd giustificano le piccole imprecisioni della messa in scena nell’adattamento ai teatri europei.
Il vero interesse di questo Ubu buur è nel linguaggio, coscienza del mondo. Il dialetto e l’accento romagnolo, l’improbabile ed estemporaneo “polacco”, il francese di per sé allitterato e divertito del testo di Jarry, l’avito wolof degli attori e l’italiano pop-scombussolato costruiscono un nuovo linguaggio che supera le traduzioni diventando lingua comune. Il pubblico è sconvolto dall’assalto dei guerriglieri che puntano le armi contro ogni spettatore e si rende partecipe delle dionisiache danze finali.

Giuseppe Acconcia,
Rivista Lab, 2007

giovedì 2 giugno 2011

Banana Yoshimoto al Teatro Festival di Napoli




Al teatro San Ferdinando è andata in scena “Chien-chan e io”, prima assoluta del “Napoli teatro festival”. Giorgio Amitrano ha adattato l’ultimo libro dell’ormai nota scrittrice giapponese Banana Yoshimoto, autrice di “Kitchen”. Vengono presentati gli episodi della vita quotidiana di Kaori, una quarantenne alle prese con le insicurezze e i vizi di una vita globalizzata. Attraverso il racconto dell’incidente accorso a Chien-chan, la sua coinquilina, la protagonista ammette quanto sia forte l’affetto che la lega a questa donna. L’amore che le unisce, sebbene sia strettamente platonico, sostituisce il sentimento per un uomo. La costruzione di una famiglia non convenzionale le permette di superare l’insicurezza dei mille spostamenti in giro per il mondo, il giudizio degli altri, l’egocentrismo degli uomini, di esseri senza radici e ancora bambini. “Per rendere in teatro un testo dove i personaggi sono pochi e hanno poche battute- dice il regista Giorgio Amitrano-, ho cercato una soluzione che non sacrificasse il flusso di pensieri della narratrice che nel romanzo è tutto, restituendo questo stream of consciousness in una forma diversa da un monologo”. Per rendere il più teatrale possibile il testo di Banana Yoshimoto la protagonista viene sdoppiata in quattro donne distinte dal look comune, che incarnano stati d’animo divergenti in contesti simili. Caterina Carpio, Alessia Giangiuliani, Pia Lanciotti, Cinzia Spanò, tra piatti di cucina giapponese, vini italiani, un arredamento minimalista e immagini video di Napoli e dell’Italia, raccontano le sensazioni e le emozioni di una donna incerta, ma appassionata. L’amore per l’Italia è una costante dei pensieri di Kaori, che però in nessun caso decide di lasciare il suo Paese per ricostruire una nuova sé nella terra che l’attira. I luoghi comuni delle reti di relazioni che costruiscono una “società mondo” vengono contrapposti in ogni momento alle insicurezze che questa vita comporta. I “non luoghi” del capitalismo vengono lasciati fuori casa, rifugio in cui la realtà si adatta alle necessità individuali.

Giuseppe Acconcia,
La Sicilia, 2008

domenica 22 maggio 2011

Il Grande Inquisitore. Peter Brook

Il teatro Stabile d’Innovazione Galleria Toledo apre la nuova stagione 2007/2008 proponendo “Il Grande inquisitore”, testo di enorme spessore di uno dei più importanti registi europei Peter Brook. Tratto da un frammento de “I fratelli Karamazov” di Fëdor Dostoevskij, è il discorso di un giudice di fronte al nuovo avvento di Cristo nella Spagna del XVI secolo. In un’epoca di terribili persecuzioni contro gli eretici, dopo essere sceso tra la gente, Cristo è di nuovo accusato ed arrestato per aver risvegliato negli uomini coscienza e libero arbitrio. Sulla scena un giovane (Joachim Zuber) ascolta in silenzio mentre il vecchio inquisitore (Bruce Myers) descrive la lenta correzione della libertà concessa da Cristo all’uomo ad opera di un’oligarchia universale. Lo fa riproponendo le tre tentazioni del deserto a cui Gesù fu sottoposto. Egli rifiutò di trasformare le pietre in pane poiché “l’uomo non vive di solo pane”. Così non volle che l’umanità lo seguisse solo per necessità. Un gruppo di eletti ha corretto questo assunto dando all’uomo ciò di cui cibarsi. “Ma non capisci che i secoli passeranno e l’umanità proclamerà che non esiste il delitto e nemmeno il peccato, ma vi sono soltanto degli affamati? Noi allora li nutriremo in tuo nome”. A questo punto, l’inquisitore aggiunge che l’uomo ha bisogno di “consegnare a qualcuno il dono della libertà”. Gesù, rifiutando di adempiere alla seconda tentazione che gli chiedeva di salvarsi nella caduta dal dirupo, aveva tolto all’uomo il miracolo. “Ma tu non sapevi che appena l’uomo respinge il miracolo, respinge con questo anche Dio, poiché l’uomo cerca Iddio quanto il miracolo; quando resta senza miracolo si sente debole e crea a sé nuovi miracoli e s’inchina davanti ai maghi e alle streghe, sia pur egli cento volte ribelle, eretico ed ateo”. Infine, l’inquisitore gli rimprovera di aver rifiutato la spada di Cesare. “Quanto tu avessi accettato il mondo, e la porpora di Cesare, avresti potuto fondare un regno universale, assicurando a tutti la pace. Noi prendemmo la spada di Cesare, e naturalmente prendendola, ti respingemmo e passammo a lui. Vi sono sulla terra tre forze uniche, capaci di vincere e di piegare la coscienza di questi deboli ribelli, per loro felicità, e queste tre forze sono: il miracolo, il mistero e l’autorità.” L’inquisitore sostiene che in questo modo sarà creata la felicità per uomini sottomessi a cui verrà concesso il pane soltanto come frutto del loro lavoro, a cui sarà permesso di peccare limitatamente al tempo libero, così, incapaci di giudicare sul bene e sul male, milioni di persone vivranno felici tranne alcune migliaia di oligarchi, custodi della verità, che, mantenendo il loro segreto, vivranno infelici.   
La scena semplice richiama la struttura del teatro di parola a cui il regista inglese fa riferimento. Bruce Myers, ha una forza interpretativa unica. Recitando in inglese con sopratitoli in italiano, dimostra le sue doti espressive, gestuali e di padronanza dello spazio grazie alla formazione shakespeariana acquisita alla Royal Academy of Dramatic Art. “Il Grande inquisitore” è uno dei testi proposti da Peter Brook al Centre International de Création Théâtral, da lui fondato a Parigi nel 1971, e messo in scena nel Théâtre des Bouffes du Nord da lui diretto. “In un’epoca in cui le dicotomie che hanno retto il mondo si sono dileguate - sostiene Brook - forse l’atteggiamento migliore è quello espresso dal Cristo di Dostoevskij, che fa prevalere sulla discussione l’azione e l’esperienza diretta.”

La Sicilia, 2007
Giuseppe Acconcia


giovedì 5 maggio 2011

Phedra's love di Sarah Kane

Sarah Kane descrive la crudeltà dell’uomo in “Phaedra’s love” in scena al Teatro dell’Orologio di Roma.

Un ragazzo-principe, Ippolito, vive in uno stato di depressione consapevole. Trascorre le sue giornate avanti ad uno schermo. Con un calzino nelle mani soffia il naso e raccoglie sperma. Gioca con una macchinetta telecomandata.
La donna-matrigna chiede il soccorso di un inutile medico prima di dichiarare il suo amore infinito per il non-figlio. La fellatio voluta dalla donna non è atto di stupro. Tuttavia, la donna, trattata con disprezzo, si uccide accusando il figlio di violenza.
Il protagonista non aspettava altro per rendere concreta la sua malattia trasformandola in morte. In galera doma un prete giunto per redimerlo. Infine, viene evirato e giustiziato dai sicari del padre e muore, cinico, assieme a quest’ultimo. Il verso di avvoltoi.

Un intreccio pseudo-familiare che nasconde l’opposizione tra anti-amore e anti-morte. Il cinismo dell’uomo più crudele che rivela al mondo una verità desolante. Il teatro spietato di Sarah Kane è arricchito dalla voce dell’attore protagonista particolarmente a suo agio nei panni di Ippolito.

“Phaedra’s love” è una rivisitazione post-moderna della tragedia di Fedra adattata alla società sessuofobica del presente nasconde tracce di semplicità geniale. La regia estemporanea ripropone sulla scena e in presa diretta fugaci riprese video.

Giuseppe Acconcia
La casa orca, 2007

martedì 3 maggio 2011

I Figli dell'Uranio di Peter Greenaway

I Figli dell’Uranio”, scritto da Peter Greenaway e messo in scena dalla olandese Saskia Boddeke, è un esempio di contaminazione di performing art, visual art e le musiche innovative di Andrea Liberovici. Il lavoro è stato presentato nel 2005 a Genova per l’anno mondiale della Fisica, a 100 anni dalla pubblicazione della “Teoria della Relatività” di Einstein e a 50 anni dalle stragi di Hiroshima.
Peter Greenaway, scrittore e documentarista, regista tra l’altro de “I misteri del giardino di Compton House ” (1982), “Lo Zoo di Venere” (1985) e “I racconti del cuscino” (1996), ha sempre subito il fascino della pittura cinquecentesca e seicentesca trasponendola in immagini cinematografiche. Negli ultimi anni si è dedicato al superamento del film attraverso la commistione di immagini e attori in movimento collocati in un teatro disgregato ma connesso.

I “Figli dell’Uranio” è ispirato al testo “Voli fatali”, scritto nel 2005 da Greenaway. Si tratta di 92 storie di personaggi immaginari colpiti da mutazioni fisiche e linguistiche. L’azione è frammentata in otto scene sincroniche.
Isaac Newton gioca con la mela del peccato. L’Uranio, 92° elemento, tormenta chi l’ha scoperto. Eva si muove da un luogo all’altro seducendo chi vi abita. Joseph Smith, colui che portò alla luce l’uranio, si tormenta nel suo letto. Marie Curie, rinchiusa in una stanza lugubre, è pallida perché colpita da radiazioni. Albert Einstein, in uno studio cupo ricoperto da formule che lo opprimono, delira consapevole che non avrebbe potuto negare la conoscenza scientifica. Robert Oppenheimer, colui che confezionò la prima bomba atomica, solo con i suoi rimorsi. Nikita Kruscev, folle vicino alla morte, critica la promessa di una società di uguaglianza malata di corruzione e capitalismo. Mikhail Gorbaciov, annichilito dalla scomparsa della moglie Raissa, si aggira disperato nella sua camera ardente. Ed infine George W. Bush, nello studio ovale, circondato da immagini terribili.
Questi personaggi interagiscono spostandosi da un luogo all’altro e scambiandosi foto di uomini con malformazioni. E’ una battaglia sulle responsabilità. Le parole degli attori si sovrappongono alle immagini degli schermi. Le lingue dei personaggi si mescolano in un uso originale degli accenti. Il pubblico si muove tra le scene seguendo l’uno o l’altro personaggio. Si divide e partecipa inconsapevolmente.
Questo lavoro unico di Greenaway registra il fallimento della rivoluzione russa, della fisica atomica, tenta di cercarne le responsabilità ma scopre soltanto scenari futuri apocalittici.

La casa orca, 2007
Giuseppe Acconcia

lunedì 2 maggio 2011

Le lacrime amare di Petra Von Kant

Al teatro Argentina di Roma per la regia di Antonio Latella l’opera di Fassbinder.
Una donna nuda gigante occupa la scena. Quattro donne-tipo la circondano dialogando con il megamanichino. Petra, una stilista di successo, vive con la sua domestica muta. Un telefono esterno alla scena la collega con il mondo da cui lei cerca di distaccarsi. Le visite di amiche chic le permettono di liberarsi dell’inconsistenza della sua vita sentimentale. L’incontro con una giovane modella che accoglie in casa innamorandosene. Quest’ultima, però, va via alla prima telefonata del marito lasciando Petra nella disperazione.
La figlia piagnucolosa e la madre affettata non aiutano Petra che vede disgregarsi il megamanichino a causa dell’azione meccanica di fantomatici uomini dietro le quinte.
Dialoghi semplici e ben costruiti. Personaggi nel contempo tipizzati ed espressivi. Una regia con pochi interventi ma di grande impatto: separè di ombre mobili che divide in due la scena, luci centrate sui personaggi che riproducono dietro le quinte le loro vicende, musiche evocative di diverso genere. La struttura del testo risulta forzata in alcuni punti da intermezzi conclusivi che dovrebbero essere di raccordo.
L’intensità dell’amore di Petra per la sua donna è tale da annullare ogni suo tentativo di fuga dalla società contemporanea. Il tiaso produce e raccoglie le sue lacrime. Possedere la sua donna equivale ad amarla.

Giuseppe Acconcia
La Casa Orca, 2007

lunedì 18 aprile 2011

Grounds for passions. Walid Aouni e Pina Baush

On the occasion of Walid Aouni's new show, Women of Qassem Amin (ongoing at the Gomhoreya Theatre until 17 February), Giuseppe Acconcia met with the choreographer

In Walid Aouni's new show, Women of Qassem Amin, there are clear echoes of the late Pina Bausch's Bamboo Blues -- performed at the Opera House last October. It was in search of overlap or affinity that I met with Auni; what I discovered was an artistic passion.
When did Aouni meet Bausch for the first time? "My first time with Pina Bausch was at the end of the 1970s. At the moment I was working with Maurice Bejart in Brussels. In those years, Pina presented Caf... Muller. All together, we were starting the great revolution of Dance Theatre with the help of the Belgian School and the influence of the Butoh (Carlotta Ikeda)... In 2002 I was in Wuppertal for a workshop at the Tanztheater, as a guest of Cairo's Goethe Institute. Thanks to Pina, I discovered a new way of working, dancing and drawing. Moreover, at this time we started a personal friendship. I met her humanity and I understood her silences. She is indescribable."
About the first and last performance of Pina's company Tanztheatre in Cairo, Auni says: "I needed three years to bring her company to Cairo. At the beginning of 2009, I met Pina a few times for this purpose. But she died two months after our last meeting. I wanted to organise a residence for her in Cairo, the way she had stayed in India and Turkey. We didn't have time."
The two plays performed by Tanztheatre (or Dancetheatre) in Cairo were Le Sacre du Printemps and Bamboo Blues. Fifteen men hurl six garbage bins full of earth onto the stage. They are arranging the scene for Le Sacre du Printemps, in which 36 dancers introduce the Rite of Spring, performing Igor Stravinsky's music. Women appear as the reflection of the earth with their sheer petticoats, while men look rough on the field with their bare torsos. A faint light comes from the left side, beams seep through windows as in Caravaggio's paintings. The fast female ride begins in joy; even the men's appearance doesn't upset the harmony. Couples form and suddenly separate in unintentionally promiscuous play. The experiences of the actors are confused with the rhythm of nature, the body starts wrestling with the hardness of the earth. And so, the clay increasingly clings to the dancers' bodies. A rude awakening recalls the power of chaos while nature is slowly selecting its victim: a small girl who appears suddenly in red.
The actors are exhausted, their heavy breathing infects the audience. The "dance composer", as she loved to be defined, always affirmed the importance of music as an inspiration for actors to create movements and words. Her 1975 Stravinsky triptych (Wind von West, Der zweite Frìhling and Le sacre du printemps) introduced a progressive separation with previous forms of choreography. Starting with her earliest beginnings as a member of the avant-garde choreographer Kurt Jooss's Folkwang School in 1955, Pina Bausch demonstrated her expressive and experimental tendencies. But only after 1975 did she define her own style as "total theatre" or a "theatre of experience". A trip into their lives brings the actors closer to happiness or further away from it. To this end, she gave them questionnaires on their childhood, their love life, applying to dance Jerzy Grotowsky's theories on the actor's body. This new attitude was already clear in Die sieben Todsìnden (1976), conceived to music by Kurt Weill, and Blaubart, Beim Anhæren einer Tonbandaufnahme, to music by Bela Bartok. The movements, emerging spontaneously during rehearsals, are slowly selected for the performance in connection with manifold props.
Who chose the two Cairo performances and why those two? "I didn't want Le sacre du printemps," Auni admits. "Of course, I preferred Pina's Nefes, made in Turkey. Stavinsky's music hides Pina's work. It is the same when Festivals choose my Shehrazad, there is more Korsakov than me in this play! Actually, I supported Bamboo Blues. When I was invited for the first representation in Berlin I thought it was perfect for an Arab public".
Pina's new way of dancing is clearly presented in Bamboo Blues. This performance, finished in 2007 in collaboration with Indian actors, was given at the Spoleto Festival last July, a week after the death of the choreographer. The performance starts off in an intimate register with six European and Asian women chewing in the middle of the field as a pack of lionesses. The games between men and women begin with sensational developments: a woman warms the sole of a man's foot with a lighter; couples parade obliquely; an Indian girl enters into the arms of her man with a fake smile; a man carries branches, another takes and loses his woman; a yellow ribbon invades the audience with a herbal aroma. Soft rock music, smells, a candid white set design unhinged by wind: the work initially has a New Age atmosphere. But the harmony is abruptly interrupted. A man drags a screaming woman on his back; another, hunted by two rivals, tries desperately to put on his clothes. The game among the genders becomes dangerous and violent. A woman tries several times to drown in a red bucket. Finally the nightmare disappears and the lioness's pack continues chewing in the wild forest, reclaiming love.
Unfortunately Pina was not in Cairo last October; how did Auni react to her death? "She had pneumonia and after five days in hospital she died without her company, who were working in Mexico." He sounds disconsolate. "Suddenly I started crying. If you watch the two documentaries about Pina's life that we programmed at the Opera House, you notice that she was all the time with a cigarette in her hand. At the beginning of 2009, I had presented an exhibition of my pastel sketches about Pina Bausch. One of them actually shows a thin woman with a cigarette above her head. This is Pina for me".
In Walid Aouni's article, published on these pages a few days after her death, we read, "her stage became a tune in which human relations intertwined one with the other teaching us a lesson on how to smile and how to shock our lost humanity".
The same subjects of Bamboo Blues are present in Kontakhtof (1978), where 26 dancers reflect on the true meaning of love. In the new version of 2008, proposed at the Stabile Theatre of Torino, Pina Bausch chose old actors, ranging in age from 58 to 70 years old. In a ballroom furnished with only chairs, a piano and a hobbyhorse, courtships, jokes, wild boogie-woogies take place. It is in Italy that the German choreographer, awarded the Golden Lion for her life's work at the 2007 Venice Biennale, has one of her best followers: Pippo Del Bono, artistic director of Torino Theatre. In his last performances ( Questo buio feroce and La menzogna ), the director and actor erupts on the scene, dancing. Even the subjects of Del Bono's plays recall his mentor's works: respect for diversity, relations between men and women, the body's diseases focusing on the tragic contradictions of postmodern society.
Bausch was a major influence for the present Lebanese choreographer, too. In Women of Qassim Amin, nine girls fight against the black shapes representing their veils. But they slowly free their shadows. Suddenly they appear, surrounded by men, showing a coloured and hidden reality.
"The work I am presenting at the Gomhoreya Theatre on Qassem Amin," Auni affirms, "is imbued with Pina's teachings. I took the way of thinking of Qassem, a revolutionary feminist, working on his biography. With Pina I discovered the long path of researching small things, pearls in the desert. In her auditions, which I was allowed to attend, after choosing a non-professional dancer, she would have him practise her classical exercises. Like Pina, I don't want my dancers to become stars, I'd like a dancer who works on ideas and becomes a set designer. Thus, I often ask my dancers questions. This is the goal of my performance on Qassem Amin, where I tried to work on the relationship between men and women. In this play, women are crushed and beloved."
Walid Aouni explains his method: "My art is a mutation of the teachings of my maestros and teachers. From Bejart I understood the power of life and death, with Pina I separated those two moments of the human being. Both were not gods for me but a continuous source of inspiration. So my method became a delirium on my self cleared of the multiplicity of dance tendencies in the present absence of teachers".
The death of Pina Bausch left a big hole in the theatre scene. But friends, students and followers all over the world still work and revise the incredible changes and teachings she introduced to theatre and dance. At the recent October events, Aouni brought her soul and energy to Cairo for the first time, encouraging a philosophical development of contemporary dance in Egypt. 

Al Ahram
Giuseppe Acconcia
febbraio/2010

venerdì 15 aprile 2011

E' Gertrude o Iaia Forte? I promessi sposi alla prova di Giovanni Testori


Sette attori e il grande Sandro Lombardi rileggono le vicende di Renzo e Lucia, per festeggiare il 150esimo dell’Unità d’Italia. Federico Tiezzi propone i Promessi Sposi alla prova di Giovanni Testori, riscrittura dell’opera manzoniana del 1984. Il testo originale viene continuamente stravolto e modernizzato, in alcuni casi completato e ravvivato. E come in “6 personaggi in cerca d’autore”, gli attori sono personaggi di sè stessi. Sin dalle prime parole si intuisce l’intento dell’autore di viaggiare sulla sottile linea tra parodia e drammatizzazione. Una compagnia, seduta attorno a un tavolo, inizia a discutere sul testo. La scena arretrata è un circo, Sandro Lombardi ne è il regista-domatore, ma è anche Don Abbondio, Fra Cristoforo, l’Innominato: basta un mantello e un quadernetto, una tunica o un vestito nero. Una cuffia trasforma l’attrice in Perpetua, il mantello un bravo in Egidio, il cappotto Gertrude nella madre di Cecilia. E non mancano le trovate drammaturgiche di estrema sintesi. Una lampadina ricrea la cupa serenità della casa di Agnese; una sigaretta la spregiudicata Monaca di Monza, interpretata con la solita intensità da Iaia Forte, mentre consegna Lucia all’Innominato. Tutti gli attori si vestono di una tuta blu. E così l circo diventa una fabbrica, dove è in corso la protesta del popolo contro i colonizzatori. I sintomi caricaturali di un attore descrivono l’arrivo della peste. E i temi della Provvidenza, della misericordia e degli abusi di potere compaiono come citazioni essenziali nell’azione che fluisce come unica eco dell’originale. Le vesti diventano più sofisticate. La morte di Rodrigo rende l’idillio di nuovo possibile. Chiude la voce milanese di Ornella Vanoni che accompagna gli attori verso un nuovo inizio.

Giudizio universale
gennaio/2011
Giuseppe Acconcia

giovedì 31 marzo 2011

Don Chisciotte: attore, folle, uomo. Antonio Latella

Antonio Latella, nuovo direttore artistico del Teatro Nuovo di Napoli, propone in prima assoluta fino al 24 gennaio Don Chisciotte e [H]L_DOPA.
In Don Chisciotte, i due bravissimi attori, Massimo Bellini e Stefano Laguni, vestono i panni di due folli che raccontano la vicenda del “cavaliere dalla triste figura”. In un ambiente metafisico, ha inizio la confessione: un goffo tentativo di ripercorrere per sommi capi la follia presunta del vecchio nobile, determinata dalle letture di romanzi di cavalleria, la scelta di un cavallo, l’ordinazione a cavaliere e la ricerca di Dulcinea del Toboso. Il linguaggio degli attori è semplice e chiaro. A questo punto, la drammaturgia di Federico Bellini conquista lentamente la scena, i due folli diventano attori con i loro camerini o registi con le loro sedie. La storia è raccontata ora da origami che vengono raccolti in libri, il cibo dei personaggi. Nel discorso, ci sono continui richiami al sesso, come vaneggiamenti di un uomo impenitente. Don Chisciotte è nudo al centro della scena, ormai l’attore, il folle, il personaggio letterario e quello teatrale sono diventati un uomo solo. I mulini a vento sono due scale, i cui pioli sono luci a neon. Dietro, in alto, si trovano i camerini degli attori. Sancio, unico appiglio alla realtà, avvisa e trattiene il compagno di viaggio fino a concedergli l’illusione di danzare, vestito in abito da sera, con una Dulcinea raccolta tra il pubblico. La vicenda è completamente scomparsa, la drammaturgia ha invaso la scena. Don Chisciotte per un attimo si trova tra le braccia la donna che tanto cercava, che tanto diceva, che in alcuni attimi sembrava una figura immensa. Nel finale filosofico Sancio supera il maestro e, raccogliendo i libri della vita, veste Don Chisciotte della conoscenza. Quest’uomo, armato dei suoi libri, potrebbe farsi esplodere, ma danza. Nell’ultimo istante l’attore torna ad essere il suo personaggio. “Fuori dal gioco e dalle sue regole, la follia ci assale - scrive Antonio Latella - ci rende viandanti. Cavalieri pronti a sconfiggere i mulini a vento che proiettano la morte sul nostro vano tentativo di resistenza. Tutto diventa follia, il tempo scorre, ma è una processione della passione umana”.
[H]L_DOPA è, invece, un esperimento drammaturgico nato dalla collaborazione di Latella                                                           con l’Ecole des Maitres di Franco Quadri, il risultato di un laboratorio itinerante che si è svolto tra Spagna, Portogallo, Belgio, Francia e Italia. Sulla scena ci sono i pazienti, raccontati da Oliver Sacks in Risvegli. L_DOPA è la sostanza che viene somministrata ai malati affetti da encefalite letargica per destarli dal “sonno”, una sorta di farmaco miracoloso. Questo spettacolo è un percorso nel teatro come luogo della malattia e della cura.
Con questi due racconti adattati alla scena, Latella prosegue la sua ricerca sperimentale lavorando sull’immaterialità della conoscenza e della costruzione scenica, trasformando la donna manichino de “Le lacrime amare di Petra von Kant” in una presenza inafferrabile.

La Sicilia
gennaio 2010
Giuseppe Acconcia

sabato 26 marzo 2011

I demoni di Peter Stein al festival del teatro di Napoli


Si è chiusa la terza edizione del Festival del teatro di Napoli. L'evento è diventato appuntamento stabile che coinvolge i teatri e i luoghi della città, dando spazio a grandi spettacoli, giovani registi e nuove iniziative. Tra le novità, la teatronovela a puntate "Bizarra" di Rafael Spregelburd e il Fringe Festival, dedicato alle compagnie emergenti. Il 19 e 20 giugno è stato messo in scena l'evento assoluto della rassegna: «I demoni» di Dostoevskij per la regia di Peter Stein, premio Ubu 2010. Dopo dodici ore, cinque intervalli e due pause per i pasti, le vicende di Varvara Petrovna e Nikolay Stavrogin, interpretato da Ivan Alovisio, nella Russia di fine '800, scorrono come la lettura di un libro o la visione di un film. Gli spettatori adeguano i ritmi della loro giornata alle azioni degli attori. E così il tempo della storia letteraria e il tempo del racconto teatrale si sovrappongono e si impongono sulle abitudini del pubblico. Lo spettatore non è obbligato a cogliere ogni istante dell'azione scenica ma a calarsi nel tempo come durata del racconto e della vita, perde il suo sguardo critico e definisce più intensamente la memoria delle vicende raccontate. Peter Stein, cofondatore e direttore artistico della Schaubuhne di Berlino, vive a San Pancrazio in Umbria da molti anni con la moglie Maddalena Crippa, la splendida Varvara Petrovna. E' avvezzo a messe in scena di lunga durata dopo l'Orestea di Eschilo (1980, durata 9 ore), il Faust di Goethe (2000, 22 ore) e il Wallenstein di Schiller (2007, 10 ore). In seguito ad una permanenza dissoluta a Pietroburgo, il bel Nikolay fa ritorno nella casa di famiglia, come indemoniato. Sebbene nessuno possa notare i segni fisici delle sue malefatte, nonostante i continui tic e gli occhi incavati, Nikolay confessa delitti efferati e rende pubblico il capriccio del suo matrimonio con una donna zoppa. «L'attualità del testo sta nel personaggio di Stavrogin- dichiara Peter Stein - Non è nè nichilista nè reazionario, è il vuoto, l'indifferenza, il male del nostro tempo. Accoglie tutto e il contrario di tutto, tentando di divertirsi o di sentire la vita, una varietà di piccole perversioni, settarismi e altre inclinazioni di una vita destinata a passare come un lampo senza fermare nulla». D'altra parte, le vicende ripercorrono il progressivo costituirsi di un gruppo di anarchici e socialisti. Secondo Peter Stein «I Demoni» è il romanzo più politico di Dostoevskij che anticipa i tempi bui dello stalinismo. La generazione dei padri viene rappresentata come colta, ma debole, mentre quella dei giovani disorientata e ricca di radicalismi: atea, cinica e perversa. Sembrano tutti demoni di una realtà che cerca un'identità nuova, ma non riesce ad abbandonare gli antichi riferimenti. Stein rispetta la struttura del libro, sceglie una scenograzia essenziale, fatta di pochi mobili, alcuni muri girevoli e una pedana avanzata. I bravissimi attori mantengono una recitazione semplice e incisiva, non perdendo mai di vista il coinvolgimento di tutti nelle vicende di ciascuno. Nel buio della notte, il tragico epilogo.

La Sicilia
Giuseppe Acconcia
29/06/2010

mercoledì 16 marzo 2011

Trilogia degli occhiali

Quanto è difficile essere coscienti del tempo e della propria condizione! “Trilogia degli occhiali” di Emma Dante è al San Ferdinando di Napoli, fino al 6 febbraio. La nuova produzione arriverà a Noto, il 12 maggio. “La trilogia è composta di tre spettacoli - scrive Emma Dante - autonomi ma indissolubilmente legati da temi di marginalità: povertà, vecchiaia e malattia.” Il primo corto “Acquasanta” racconta di un marinaio (Carmine Maringola) alle prese con il duro lavoro su una nave. Ha la bava alla bocca, lavora in continuazione. Preso in giro dal suo capitano e dalla tempesta, non crede nella liberazione della terra ferma. Parla in napoletano, si muove come una marionetta. Le tre ancore che lo muovono, come i tre episodi, sono nelle mani di un capo invisibile. Canzoni italiane popolari tra gli anni ’30 e ’60 accompagnano gli attori, carillon e luci tenui preparano al secondo corto, mentre il pubblico si sposta all’interno del teatro. In “Castello della Zisa”, due suore, interpretate da Claudia Benassi e Stéphanie Taillandier, si vestono. Riescono lentamente e con concitazione, tra giochi e cure, a ridare vita ad un folle. Nicola (Onofrio Zummo) sta seduto, dimenticato, strappato alla zia nel quartiere popolare della Zisa. Ma la sua foga diventa irrefrenabile. Devono contenerlo nelle sue esagerazioni. Recitato in palermitano e in francese, questo magico episodio rievoca le scene del teatro sperimentale dell’emarginazione, caro a Pippo del Bono. Una vecchia raccoglie i carillon  sistemati sulla scena. Ha inizio così “Ballarini”, il terzo corto. Due vecchi (Elena Borgogni e Sabino Civilleri), resi storpi dal tempo, ballano con movimenti lentissimi. Ma la loro danza si fa più agile, convinta. E così si risale a ritroso al giorno del loro primo incontro e alle tappe fondamentali della loro vita. La vecchia donna, sola, si spegne lentamente.

Giuseppe Acconcia
La Sicilia
febbraio 2011