mercoledì 23 marzo 2011

Dopo Mubarak?

Dopo le dimissioni di Mubarak, il potere è nelle mani dei militari per garantire una fase di transizione fino alle elezioni del prossimo settembre. Il primo punto che la giunta militare e il vicepresidente Suleiman dovranno affrontare sono la revoca della legge di emergenza e il riconoscimento dei partiti politici che potranno partecipare alla campagna elettorale. Nelle prossime ore bisogna comprendere quale sarà la reazione della piazza e se accetterà questa fase di leadership militare. Le richieste dei movimenti di opposizione Kifaya! e “6 aprile” sono di varia natura. Dal 2005 e fino al 25 gennaio scorso, questi gruppi organizzavano manifestazioni di poche centinaia di persone nei pressi del Parlamento, dei Sindacati e della Corte Suprema. Richiedevano riforme liberali in campo economico, politico e la nascita di un welfare pubblico, indipendente dalle associazioni caritatevoli islamiche. Ora gli attivisti che hanno occupato piazza Tahrir, come il blogger, Alaa Abdelfattah, l’ingegnere informatico, Wael Ghonim, il professore universitario, Nour Nada, hanno chiesto prima di tutto le dimissioni di Mubarak. I rappresentanti del Wafd, partito liberale, e Tagammu, comunista, si sono uniti alle prime manifestazioni appoggiando le richieste di questi movimenti, ritenute sovrapponibili alla loro tradizionale retorica velatamente antiregime. Queste richieste avvicinano non poco i movimenti egiziani ai riformisti iraniani. Nei giorni scorsi, i sostenitori di Karroubi, leader rivoluzionario agli arresti domiciliari, e di Moussavi avevano chiamato alla protesta in sostegno della Rivoluzione egiziana. E alla mobilitazione per il completamento democratico delle istanze rivoluzionarie in Iran. Khamenei e Ahmadinejad, da parte loro, nell’ordinaria retorica rivoluzionaria, hanno sostenuto la rivolta in Egitto, ma temono che possa assumere le caratteristiche di una reale svolta democratica sul modello riformista.
Di sicuro questa trasizione guidata dai militari eviterà una deriva islamista della protesta, come auspicato dai proclami di Al Qaeda. Ho visitato numerose moschee, incontrato vari imam appartenenti ad ogni gruppo e iniziato un viaggio tra i salafiti per capire quali sono le loro opinione sull’uso della violenza e del jahad. Lo sheikh al Ameer, 33 anni, giovane imam della moschea Imam Hussein appare ancora scosso: "l'Islam è come la luna e i musulmani come la terra che guarda la luna. Ogni musulmano guarda la luna con il suo punto di vista." Il riferimento è ai gruppi salafiti, da cui prende le distanze, “perché si oppongono agli insegnamenti di Al Azhar”.
I minareti della bellissima moschea di Al Azhar, punto di riferimento per i sunniti egiziani e non solo, si scorgono a pochi metri dalla piazza. “Mi vergogno quando ci sono attentati come quello del 2009 in piazza Imam Hussein e a gennaio alla chiesa di Alessandria. Sono atti che non possono essere compiuti da un musulmano – confessa lo sheikh  Muhammad Hassan, 30 anni, uno degli imam della più influente moschea del Cairo. L'ignoranza è terreno fertile per uccidere, afferma: "più conosco, più posso amare; più vivo nell'ignoranza, più vivo nell'odio dell'altro". Al contrario di Ameer, Hassan presenta l'Islam come privo di divisioni. Sottolinea che il governo di Mubarak ha sempre tenuto sotto controllo le moschee, “ogni imam e ogni studente è controllato dalle autorità”, un suggerimento forse per cercare altrove i responsabili degli atti di violenza? Rifiuta del resto ogni critica alle correnti salafite, "li chiamo i miei fratelli e spero che tornino verso l'insegnamento dell'Islam”. Eppure, da quanto appreso da ambienti di polizia, le indagini sui due più gravi attentati degli ultimi anni sono partite dai negozi limitrofi agli eventi e tra gli studenti stranieri in visita alla moschea di Al Azhar, provenienti dal Sud-est asiatico.
Donne con il velo integrale che ne copre gli occhi, barbuti con i segni pronunciati della zebiba, la macchia della fedeltà alla preghiera, lunghi banchi di materiale di propaganda e cassette con le prediche degli imam. Questi particolari accomunano circa 40 moschee del Cairo dove si raccolgono centinaia di “veri sunniti”, soprattutto nei rioni più disagiati della capitale egiziana. Alla fine della lunga preghiera del sabato, ho incontrato nella moschea salafita Al Gameya al Shareya, una tra le più grandi del Cairo, lo sheickh Omar Abdel Aziz.
“Insegno le regole giuste dell’Islam - precisa Omar, 45 anni, docente all’Università di Al Azhar. Mi identifico con l’ideologia salafita. Ho intenzione di comprendere l’essenza della religione islamica”. “Alcuni settori della società egiziana - continua - e poteri esterni impediscono una corretta applicazione dell’Islam”. “Il musulmano si interessa alla giustizia nel lungo periodo - aggiunge - e fa uso della violenza solo se ne ha il diritto. Il jihad è obbligatorio se si verificano condizioni precise, che oggi sono presenti in Iraq e in Palestina. Anche gli egiziani possono partecipare alla lotta in questi paesi a patto che lo facciano nel nome dell’Islam”. Questi discorsi sono condivisi dai principali leader religiosi delle moschee salafite del Cairo. Ma, sottovoce e con un tono moderato, anche in ambienti conservatori. Così, lo sheikh Muhammad Hassan, di Al Azhar, giudica che “l’occupazione di terre musulmane non può che generare violenza.” Ma è negli ambienti salafiti che si fa vera opera di propaganda. Secondo importanti analisti di questa corrente, negli ultimi anni, i gruppi salafiti hanno inasprito i contenuti delle preghiere, all’interno delle moschee, nelle trasmissioni dei canali televisivi, direttamente controllati, e nelle città di Shareia e Kafr Sheickh, a maggioranza salafita. La principale sfida del nuovo governo egiziano sarà di ascoltare le richieste dei movimenti che hanno occupato piazza Tahrir per 18 giorni e limitare l’influenza che in questo momento di instabilità potrebbero avere i gruppi salafiti.
Giuseppe Acconcia
La Sicilia 14/02/2011


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