mercoledì 16 gennaio 2013

Mahalla, dove gli operai bocciano la Costituzione



Foto di Francesca Leonardi
Reportage • Nella regione dove, al tempo degli inglesi, nacque il movimento dei lavoratori egiziani. Allora vennero zittiti dal nazionalismo, ora dagli islamisti. Domani secondo turno del referendum

Mahalla, dove gli operai bocciano la Costituzione
Le manifestazioni contro Morsi sono iniziate qui prima del decreto pigliatutto 
In piazza Shon si è tenuto un voto autogestito sulla Carta promosso dai socialisti locali

Giuseppe Acconcia
MAHALLA AL-KUBRA
Arriviamo nel villaggio di Qafr el-Agazia attraversando campi verdi sterminati, dopo aver lasciato nel grigio dell’inverno mite del Delta del Nilo le case di Shubra Babel. Centinaia di sacchi di cotone riempiono queste terre. Più avanti si produce miele o si raccolgono riso e grano, mentre decine di mucche pascolano ai lati della strada asfaltata che porta in città. Il cotone sarà poi usato dalle antiche fabbriche del centro di Mahalla al-Kubra. Il principale mezzo di trasporto in questi campi sono i tok tok gialli e neri (minuscoli veicoli, modello ape) che portano contadini ed operai nelle loro case. Nel villaggio della regione di Gharbeya sembra tutto fermo al tempo degli inglesi, quando il movimento operaio egiziano nacque e prese forma in queste terre, ispirando i lavoratori protagonisti della rivoluzione del 1919. Allora gli operai vennero azzittiti dal nazionalismo e la disperazione per le rivolte fallite segnò quegli anni cupi, di crisi e risentimento. Sembra che la storia si ripeta, ma questa volta sono gli islamisti a tenere in pugno operai e contadini. All’ingresso del villaggio ci accoglie Garib Moussa, per 30 anni è stato operaio nella fabbrica Gazl el-Mahalla. Siede, avvolto nel suo mantello giallo dei giorni di festa tra le foto di suo figlio, quando faceva il servizio militare, che spiccano sulle spoglie pareti di un verde chiarissimo. Ad uno ad uno arrivano i notabili del paese. Nella regione degli operai hanno prevalso i «no» alla Costituzione con il 52% dei voti. Sono queste le terre dove i partiti socialisti e comunisti del cartello elettorale «La rivoluzione continua» avevano ottenuto i maggiori consensi alle elezioni parlamentari dello scorso anno.

«Uomini del vecchio regime»
«Non ci sono stati benefici dal movimento rivoluzionario», ci spiega Garib. Lui come molti dei contadini di Qafr el-Agazia ha votato per Ahmed Shafiq alle presidenziali. Per questo motivo, la principale accusa mossa dai Fratelli musulmani ai sostenitori del «no» è di essere dei feloul, degli uomini del vecchio regime. C’è qualcosa di vero in quest’accusa e si legge nelle parole degli abitanti del villaggio. Mahmoud Houssa fa il contadino e il conducente di tok tok. Entra nella casa di Garib con la sua lunga galabya bianca, porta gli occhiali e ha dei guanti di lana che gli coprono le mani. «L’autorità di Morsi e le idee dei Fratelli musulmani sono per noi un grande problema. Alcuni politici islamisti sono venuti nelle case dei vicini e hanno dato 100 ghinee (12 euro), riso e zucchero per spingerli a votare “sì” alla Costituzione. Ad alcuni hanno persino preso in affitto un tok tok», rivela Mahmoud. Ma una delle principali ragioni di sdegno di questi contadini è la legge, approvata da Mohammed Morsi, che stabilisce la cancellazione dei debiti degli agricoltori, superiori alle 10000 ghinee (1200 euro). «Quando sono andato in banca, mi hanno detto che devo avere un permesso speciale per azzerare i miei debiti. Si tratta solo di menzogne», tronca Mahmoud. Le manifestazioni contro Morsi sono iniziate a Mahalla ben prima del 22 novembre scorso dopo il decreto pigliatutto del presidente. Gli operai hanno scioperato e marciato verso piazza Shon contro la Costituzione e per la cancellazione dei debiti dei contadini, prima dei cittadini del Cairo. Negli scontri con gli islamisti sulle rotaie del treno, che dividono Mahalla in due, sono rimaste ferite oltre 318 persone, tre in modo grave. Secondo i giovani delle opposizioni, gli attivisti dei Fratelli musulmani hanno usato armi e proiettili, mentre la polizia è rimasta a guardare per ore.
Entrano in questa minuscola stanza anche sheykh Mahrour e il segretario dell’organizzazione dei contadini, Emad Shauki, che inizia: «Il governo dei Fratelli musulmani ha stabilito che il prezzo di una tonnellata di riso è pari a 2000 ghinee (230 euro), ma in realtà lo compra a 1500. Spesso i contadini non trovano neppure dei compratori per il loro riso e sono costretti a venderlo ai commercianti». A questo punto Mahrour interviene: «al tempo di Mubarak una tonnellata di riso veniva pagata dal governo 2500 ghinee (270 euro). 

Il credito agricolo è azzerato
Non solo, il credito agricolo di Gharbeya ha quasi azzerato le sue riserve monetarie negli ultimi due anni. Per questo non vogliamo il governo islamista, sta peggiorando tutto». Ma l’alternativa all’islamismo in queste terre sembra il nazionalismo di Ahmed Shafiq più che una rinascita socialista. Visitiamo Taher Rushdy, è un contadino di 60 anni, fino a 15 anni fa coltivava il cotone. «Non c’è né libertà né giustizia sociale. Abbiamo fatto la rivoluzione ma soffriamo del debito da pagare». Per il continuo aumento dei prezzi, Taher potrebbe non continuare a fare un lavoro che lo impegna 12 ore al giorno, con la sola pausa che si concede per mezza giornata durante l’Eid. Ma a Qafr el-Agazia, molti contadini sono vicini agli islamisti. Discutiamo con Khaled Derwish, politico di Libertà e giustizia e contadino. Racconta di far parte della Fratellanza dal 1994, ma di non aver mai potuto ottenere i posti che gli venivano proposti nelle amministrazioni pubbliche o nella moschea di Al Azhar per le sue idee politiche. «Questa Costituzione è la migliore garanzia per poveri e lavoratori. Se le banche si rifiutano di applicare la legge voluta da Morsi per la cancellazione dei debiti, i contadini devono citarle davanti ai giudici», garantisce Khaled.
Raggiungiamo Mahalla al-Kubra. Alle tre e trenta si aprono i cancelli della fabbrica tessile Gazl el-Mahalla, una parte dei 21000 operai, dopo i massicci licenziamenti del 2001, torna a casa. Gli uomini e le donne del turno della mattina hanno dei volti di ogni tipo, ci sono salafiti con la fronte consumata dalla preghiera, madri con i loro figli, giovani dall’area liberale. Molti camminano con un sacchetto nero dove è custodita la tenuta da lavoro. All’esterno della fabbrica delle donne, sedute in terra, vendono pesce, verdure e mandarini. Svetta sulle quattro grandi ciminiere dell’edificio, il campanile costruito dagli inglesi che scandisce le ore del lavoro degli operai. Dopo il 1919, anche nel 2008, le rivolte hanno avuto inizio proprio da qui. A Mahalla al-Kubra, il movimento «6 aprile» ha avviato le sue campagne a difesa dei lavoratori. Ai piedi dell’imponente orologio, si attardano degli studenti. Sei carri armati dell’esercito proteggono l’ingresso della fabbrica pubblica dopo gli scontri dei giorni scorsi. Parliamo con due operai, Walid e Gamal. Sono due islamisti della prima ora, adesso pentiti e attivisti del movimento socialista di Khaled Ali. 

Cercando rappresentanza
Sembra tutto in trasformazione a Mahalla e tutti alla ricerca di una rappresentazione politica adeguata alle aspirazioni di una vita. «La nuova Costituzione ci vuole mettere il bavaglio», dice Walid mentre con orgoglio mostra le infrastrutture della fabbrica, dalla scuola allo stadio. «Quando ho iniziato a lavorare nel 1984 c’erano 45000 operai», racconta Gamal che ha concluso il turno di notte alle 7 di mattina. «Essere contro Morsi non vuole dire essere contro la religione», prosegue Gamal. Poco più avanti incontriamo Eman, che da 23 anni lavora in questa fabbrica ed è attiva nel movimento sindacale. «Non ci sono diritti per noi lavoratori, una donna come può accettare che il salario sia connesso alla produzione. E poi si apre al diritto di licenziamento che è possibile se la legge lo stabilirà. Non solo, non si dice quando uno sciopero è legale. Addirittura, abbiamo partecipato ad una riunione con il governo in cui hanno promesso di cancellare alcuni articoli ai quali ci opponevano, ma poi non l’hanno fatto», spiega Eman con foga.

Mustamara, quartiere operaio
Di sera raggiungiamo il quartiere operaio Mustamara. Nei lotti costruiti dagli inglesi negli anni trenta vivono 600 famiglie di lavoratori. Qui incontriamo Gamal Hassanin, responsabile del Sindacato dei lavoratori, che non usa mezzi termini nel criticare gli articoli della Costituzione che si occupano di lavoro. «Questa Carta mette le mani sui diritti sindacali. Il governo ha il controllo dei lavoratori, li può licenziare o trasferire. E così gli operai sono a disposizione dei Fratelli musulmani. Non solo, in un paese come l’Egitto non è possibile legare i salari alla produzione: le nostre infrastrutture sono obsolete e questo influisce sui livelli di produzione; in più, aumentano quotidianamente i prezzi dei materiali grezzi. Per questo gli articoli della nuova Costituzione sono irrazionali. I salari dovrebbero essere indicizzati all’inflazione, mentre l’aumento dei salari nel settore pubblico è di due ghinee (25 centesimi di euro) l’anno», chiarisce Gamal. Ma secondo lui le divisioni nella società egiziana si trasferiranno presto nelle fabbriche. «Per i regolamenti interni ad ogni fabbrica il tetto alla produzione può essere di 100 unità al giorno. Per ogni unità in più che produce un operaio non viene pagato dal datore di lavoro. Vogliono portare lo scontro nelle fabbriche, anche se fino ad ora si trattengono dal dirlo. Fratelli musulmani e salafiti si considerano gli unici credenti, mentre gli altri sono tutti comunisti, solo perché parlano di democrazia vengono stigmatizzati. Si può essere ottimi credenti e non avere alcuna relazione con i Fratelli musulmani», conclude con estrema lucidità il sindacalista.

Donne in fila per votare
Pochi giorni fa a Mahalla, in piazza Shon, si è tenuto un voto simbolico sulla Costituzione a cui hanno preso parte operai e contadini. Ad organizzarlo insieme a giovani delle opposizioni, Hamdi Hussein, leader del partito socialista locale. È stato in prigione decine di volte, l’ultima per aver brandito le foto di Mubarak, impresse su una bara, negli scioperi del 1988. «C’è stata una partecipazione straordinaria al nostro contro-referendum. I “no” hanno vinto con il 96%. Le donne hanno fatto la fila per votare e poi mostravano la loro scheda ad altre donne che si aggiungevano alle code. C’era un disabile che non ha potuto votare al referendum ufficiale perché si è rifiutato di essere issato al terzo piano del suo seggio. L’abbiamo fatto votare per primo», racconta felice Hamdi. «La Costituzione crea disuguaglianze tra cittadini e i primi a pagarne le conseguenze sono i nubiani, le donne, gli operai, i cristiani e i bambini. Il governo dice di voler cancellare il debito dei contadini ma aumenta il prezzo dei semi. E così, la vittoria del “sì” sarà comunque una sconfitta per i Fratelli musulmani. Non solo, questa Costituzione riporterà le manifestazioni nelle strade di tutto il paese. Gli islamisti vogliono un Egitto capitalista più di quanto non abbia tentato Hosni Mubarak», conclude il politico.
Mahalla è terra di scioperi e scontri. Le storie dei contadini e degli operai di questa città raccontano la lotta quotidiana tra politica e lavoro. Alcuni trovano nell’islamismo la risposta, altri nel nazionalismo, i più tenaci nel socialismo, come avvenne per il contadino Fikri al-Khuli, che aveva lavorato per le industrie tessili di Mahalla, per poi divenire comunista e finire in prigione al tempo di Gamal Abdel Nasser. 


Il Manifesto
Egitto, pag. 7
venerdì 21 dicembre 2012





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