giovedì 22 marzo 2012

Da Teheran al Cairo, le diverse forme della primavera





Mariangela Laviano intervista per Lpl Giuseppe Acconcia, autore del libro “La Primavera egiziana e le Rivoluzioni in Medio Oriente”

D - Nel suo libro lei scrive che “tutto ha avuto inizio con la contestata rielezione del presidente Ahmadinejad in Iran nel giugno 2009”, quando invece, comunemente, si riconduce l’inizio delle insurrezioni nel mondo arabo al gesto suicida di Mohammed Bouazizi. Ci spiega perché lei propone questa nuova chiave di lettura?
R - I metodi usati dai giovani iraniani nel 2009 per opporsi alla rielezione di Mahmoud Ahmadinejad sono molto simili a quelli che hanno usato due anni dopo i rivoluzionari del Medio Oriente. In Iran ha avuto poi un ruolo importante la diaspora all’estero. Ma, come è evidente, le conseguenze delle manifestazioni sono diverse poiché l’Iran vive in spazi pubblici diversi. In ogni caso, le recenti elezioni parlamentari iraniane hanno senz’altro segnato un ridimensionamento della figura controversa del presidente in favore della Guida Suprema Ali Khamenei.

D - Anche l’osservatore meno attento non ha potuto non constatare che il Marocco, l’Algeria e la Giordania siano state solo marginalmente toccate dalle proteste più forti. Ci può dare la sua valutazione alla luce delle sue esperienze?
R - Anche in Marocco, Algeria e Giordania le manifestazioni sono state imponenti. Tuttavia la reazione delle forze di sicurezza in quei casi è stata di immediata frammentazione degli spazi pubblici per impedire ai manifestanti di occupare i palazzi delle istituzioni. Contemporaneamente, in particolare in Marocco, sono state fatte concessioni senza precedenti verso un processo di costruzione di una monarchia costituzionale che ha portato all’affermazione dei partiti islamisti alle elezioni parlamentari dello scorso novembre.

D - Si è molto parlato di come i social network siano stati decisivi per la riuscita della primavera araba. Qual è la sua opinione?
R - Facebook, Twitter, così come i blog di attivisti come Hamalawi, Gonim e Abd el-Fatteh, hanno aiutato l’organizzazione delle proteste in Egitto. Il blackout su internet e telefonia cellulare imposta dal regime ha ulteriormente esacerbato il malessere e spinto la gente in piazza. Diverso è però tentare di decifrare il ruolo politico che i social network hanno avuto nel periodo di transizione democratica. Molti attivisti si sono dimostrati lontani dalla politica e incapaci di usare i nuovi media come strumento di mobilitazione elettorale.

D - Nel suo libro parla anche di rivoluzione “culturale”. Ci può spiegare perché?
R - Nei giorni in cui piazza Tahrir era occupata permanentemente è iniziato un movimento culturale ancora in corso. Si tratta di una composita realtà di giovani e meno giovani, rapper, graffitari, musicisti e scrittori che animano le vie del Cairo. Dal 25 gennaio 2011, le mura della capitale egiziana hanno iniziato ad essere piene di graffiti, le canzoni rivoluzionarie di oudisti sono state composte per piccoli festival di quartiere, i rapper hanno ripreso gli slogan della protesta per continuare a descrivere i quartieri periferici del Cairo e il tifo calcistico, come facevano ben prima del 2011. E’ importante ricordare come questo è avvenuto in continuità con il passato, coinvolgendo grandi poeti come Ahmad Foad Nigm, ma anche con la grande aspirazione a modernizzare il linguaggio artistico.

D - Come vede la relazione tra le minoranze religiose e i musulmani alla luce delle ultime elezioni egiziane?
R - Copti e musulmani sono stati fianco a fianco a difendere le proprie case nei giorni in cui le strade del paese erano percorse da gruppi armati. In molti casi il settarismo religioso è stato attivato strumentalmente da gruppi salafiti mentre l’esercito è intervenuto solo marginalmente per fermare gli scontri interreligiosi. Nel nuovo Parlamento i copti hanno ottenuto solo 7 seggi e hanno polarizzato il loro voto sostenendo i liberali del Blocco, partito sostenuto anche dall’ex magnate di Orascom Naguib Sawiris. E’ difficile prevedere quale minaccia possa venire dall’inasprirsi del discorso religioso salafita ed è questo uno dei punti chiave di questa fase di transizione.

D - Nel marzo 2012 è prevista la sentenza del processo Mubarak. Quali sono le sue previsioni?
R - Mubarak è accusato di aver ordinato di sparare sulla folla e per questo rischia la pena di morte. Tuttavia, la deposizione a favore di Mubarak del maresciallo Hussein Tantawi, guida del Consiglio Supremo delle Forze armate, che ha preso il potere in Egitto dopo le dimissioni del presidente egiziano l’11 febbraio 2011, ha reso più difficile una sua condanna. D’altra parte, gli attivisti accusano l’esercito di usare due pesi e due misure, di lasciare impuniti i responsabili delle uccisioni di manifestanti (il generale accusato di aver imposto il test della verginità a 17 donne arrestate nel marzo 2011 è stato prosciolto) e di sottoporre blogger e Ong alla giustizia militare o a perquisizioni e controlli intimidatori.

D - Lei scrive, nel suo libro, che la Rivoluzione ha cambiato la vita di tutti gli egiziani e in particolar modo la sua. Ci spiega perché?
R - Molti egiziani hanno cambiato il loro modo di vedere il rapporto tra stato e società, hanno acquisito nuovi significati i termini di sovranità popolare, uguaglianza di fronte alla legge, democrazia. Molti giovani hanno iniziato a fare politica, molti Fratelli musulmani sono stati scarcerati dopo anni in prigione. Per questo le rivolte hanno segnato per tutti coloro che le hanno vissute un momento di discussione e di ricostruzione della pripria posizione all’interno di un sistema per molti aspetti ancora patronale, diseguale, imbevuto di nazionalismo e retorica religiosa. Molti stranieri hanno lasciato l’Egitto e altri sono arrivati in questi mesi, il mio interesse per il Medio Oriente si è modellato in Iran e negli anni precedenti alle manifestazioni del 2011, ma un movimento così vasto e spontaneo ha confermato e accresciuto il mio interesse a lavorare e studiare dei paesi complessi il cui processo di modernizzazione e costruzione nazionale sono di grande fascino.

D – Chiudiamo con la crisi in Siria, a cui dedica un intero capitolo del suo libro. Perché, secondo lei, la partita è ancora nelle mani di Al-Assad?
R - Il partito Baath ha un controllo determinante sulla classe media urbana di Damasco e Aleppo, per questo le proteste in Siria hanno ancora un carattere periferico. L’opposizione siriana non ha manifestato prima del 2011 ed è estremamente divisa al suo interno. L’unico punto a sfavore per Assad sarebbero più dure iniziative internazionali che potrebbero spingerlo alle dimissioni. Tuttavia per l’accordo tra esercito e partito Baath e per la debolezza della Fratellanza musulmana siriana, la transizione a Damasco appare ancora lontana.

martedì 20 marzo 2012

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