sabato 2 aprile 2011

Spazio interno-spazio esterno

Entro in una casa grande, con scale, balconi, stanze, finestre, posso stendermi in posti vari, percorrere metri e metri avanti e indietro, salire, scendere. Sento lo spazio appartenermi. Questa estensione però mi rimpicciolisce. Mi spoglia, mi svuota. Io mi trasformo in questa casa. E divento immobile. Mi sento forte, potente, ricco, senza nessuna necessità di riscatto nel denaro. Un luogo così esteso è circondato da pianura e montagne basse che avvolgono in abbracci simulati ma avvertibili, non c’è rifugio fuori da queste mura. Io-casa non ho alcun motivo di muovermi, posso fare tutto dentro, mangiare, dormire, trovare cibo, leggere, guardare, parlare, scrivere, piangere, pensare e capire. Carattere espanso lungo scale, giardini, alberi, finestre e anche schermi, computer, poster, fotografie. Riconosco ogni piccolo angolo, ogni tasto di quel piano, ogni segno sulle mie mura. I giorni trascorsi scapicollandomi tra gli scalini per costruire carri carnevaleschi da un piano all’altro. Le sedie disposte nei corridoi per rendere gradevole al pubblico astante piccole sceneggiate di bambini. Le ore trascorse rincorrendo parenti ed amici per chiudere quella porta a chiave e restare giorni senza aprirla. Urla che ancora rimbombano tra i marmi dei miei gradini saliti con foga o saltati di fretta. Salite lente con le braccia di vecchi fantasmi tenuti con forza. I pigolii di uccelli caduti nel camino. Cimici, scerpole, topi che corrono per nascondersi. La comodità di quel letto che non vorrei mai lasciare perché possiede un materasso profondo che mi inabissa in un mondo onirico, mi teletrasporta su un piano dall’estensione incalcolabile e, se mi addormento di sguincio, incommensurabile rispetto al mio lato sinistro. I calzini lunghissimi pieni di cioccolata, tavolate seguenti la discesa nella tomba, le costose opere di amici falegnami e muratori. Le mura abbattute, gli angoli riempiti da oggetti trovati un po’ dovunque o estorti con insistenza o prestati da chissachi. Il pavimento che ha raccolto la caduta, le bancarelle preparate sul mio confine, le minuscole bici. I pesci che sguazzano nelle acque come colori di mari caraibici, morti uno dopo l’altro, annegati nelle mie acque profonde.

Entro in un piccolo appartamento, tre stanze, una cucina minuscola, un bagno. C’è così poco spazio che mi rifiuto di muovermi. Mi siedo. Penso. Sono costretto ad uscire. Mi sento debole, impotente, povero, con un enorme necessità di riscatto. Per fortuna fuori c’è una grande città di strade larghe, costruzioni antiche, luce intensa, fiumi, isole, strade strette e labirintiche case ottocentesche. Sento la città appartenermi. Io mi trasformo in questa città e divento via. Io-città non ho alcun motivo di stare fermo, posso fare tutto fuori, conoscere, confrontarmi, trovare cibo, volti, suoni, sapori. Mi ingrandisco, capace di muovermi, di percorrere chilometri e chilometri, di parlare con la gente, di ridere, di divertirmi, di cercare. E’ come se una casa non ce l’avessi più. Quel minuscolo luogo dove dormo neppure lo considero poiché è per strada che sento me. Echeggiano in me le urla nelle case di uomini e donne trasformati, resi mostri dalla vita insieme, incapaci di trattenere qualsiasi emozione pur di uccidere il pensiero dell’altro, aggressivi tormentati, pronti a negare tutto, a tarpare iniziative, nessuna accoglienza, “per carità”. I canti nella notte e all’alba protratti nei miei parchi pubblici senza cancelli. Piccole chiese medievali, campagne dietro le mura, resti di archeologia vivibile, piazze costruite su magiche vestigia circondate da migliaia di gatti. Mattatoi, gasometri, ponti e barconi umidi, corrosi dalla palude di un fiume da tenere lontano. Mari preceduti da chiazze di verde popolate da uomini e donne nudi. Luoghi di lavoro dove tutti si affaccendano per guadagnare denaro. Piccoli rustici costosissimi da mangiare all’in piedi “per sgranchirsi le gambe”. Poco profonde piscine, Roma ’70, dove nuotare senza sosta, portare fuori la testa e guardare quel tetto di lamiere colorate. Scuole dove tanti ragazzi cercano di capire dove si trovano. Alte statue di gesso delle aule labirintiche delle mie Università. “Angelo Mai’s Orchestra”. Cantine trasformate in cinema. Le sfilate di vesti ecclesiali e affreschi disintegrati. Scenografie pronte. Piccole strade con nomi di provincia che conducono nei miei quartieri dai palazzi più alti e abitati soprattutto di notte. Stazioni ed aeroporti dove passo la notte, assisto ai pestaggi di androidi disumani e da dove parto.

Giuseppe Acconcia
1,2,3 liberi tutti! 2007

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