Giuseppe Acconcia
Il processo a Mubarak è da rifare. Se il principale
successo del movimento sociale che ha coinvolto l’Egitto, a partire dal 25
gennaio 2011, è forse proprio la condanna all’ergastolo dell’ex presidente, la
corte di Cassazione ha disposto la scorsa domenica un nuovo processo per Hosni
Mubarak, e l’ex ministro dell’Interno, Habib el-Adly. L’84enne rais egiziano si trova dal 27 dicembre scorso
nell’ospedale militare di Maadi, in seguito ad una caduta nella prigione di
Tora, dove sconta la pena all’ergastolo per complicità
nell'uccisione di circa 900
manifestanti durante le rivolte. Lo scorso due giugno, anche el-Adly è stato condannato al
carcere a vita, mentre i figli di Mubarak, Alaa,
Gamal e sei funzionari del ministero dell’Interno sono stati assolti.
Secondo attivisti e forze di opposizione, dietro il
nuovo processo, si prepara l’impunità per il vecchio Mubarak, dopo che gli
islamisti hanno incassato l’approvazione della Costituzione che sancisce il
bando dei politici del Partito nazionale democratico (Pnd) dalla scena pubblica.
Sin dal primo giorno di arresti domiciliari a Sharm el-Sheikh, gli avvocati
dell’ex rais hanno tentato di prendere tempo e di umanizzare il “diavolo”, rappresentandolo
quotidianamente come malato o in fin di vita.
Il revisionismo è dietro l’angolo. L’ex ministro della
giustizia, Ahmed Mekky, commentò la sentenza di ergastolo sottolineando come le
assoluzioni per el-Adly e i suoi sei assistenti avrebbero aperto la strada al
perdono per tutti gli imputati nel processo. A conferma di queste parole, è
arrivata lo scorso ottobre la sentenza che ha scagionato i leader del defunto
Pnd dalle responsabilità nella “battaglia dei cammelli”, il giorno più duro
delle rivolte, in cui si scontrarono in piazza Tahrir i sostenitori e gli
oppositori dell’ex presidente. Secondo la corte, la maggior parte dei testimoni
ascoltati nel processo era politicizzata. E quindi i temibili, Safwat Sherif,
ex presidente della Shura, e Fathi Sorour, ex presidente del Moghles Shaab
(Assemblea del popolo) sono stati prosciolti.
È curioso che si voglia negare proprio la
responsabilità della polizia nelle violenze. A quasi due anni dal 25 gennaio
2011, le rivolte egiziane e tunisine possono essere raccontate come
l’opposizione alle abitudini umilianti e degradanti dei poliziotti nei
quartieri popolari. Da poveri, disoccupati e venditori ambulanti, i poliziotti
sono diffusamente percepiti come una forza paramilitare che usa torture e violenze.
Gli agenti di polizia sono responsabili di controlli sulla riscossione delle
tasse, sul traffico, i prezzi degli alimentari nei mercati, la moralità e la
difesa dei luoghi pubblici.
Per questo, sulle responsabilità nelle violenze, i
primi incriminati sono proprio i poliziotti. Il 25 gennaio 2011, al Cairo e
Alessandria i manifestanti attaccarono prima di tutto un centinaio di stazioni
di polizia, nei quartieri popolari di Helwan, Embaba, Bab al Sharya, Boulaq
Dakrur e al-Mattarya. Quando la situazione sul campo apparve fuori controllo, la
polizia scomparve, l’esercito decise allora di abbandonare Mubarak al suo
destino e di non sparare sulla folla.
A quel punto, la tv di stato e la giunta militare per
fermare l’occupazione dello spazio pubblico tentarono la carta del panico,
puntando sul timore dei baltagi, i
criminali. Tutti i manifestanti sono stati descritti come criminali. In realtà
il termine baltagi è molto vago, in
alcuni periodi storici è stato associato ai salafiti, in quartieri popolari viene
ancora riferito a chi collabora o informa la polizia. Il culmine delle violenze
è stata la strage di Port Said, lo scorso febbraio, in cui sono stati uccisi 74
sostenitori della squadra dell’el-Ahly, da molti ricordata come la suprema
vendetta dei poliziotti contro gli Ultras, tra i protagonisti delle rivolte.
Le responsabilità di Mubarak nelle violenze di piazza
sono ancora lontane dall’essere dimostrate o accettate unanimemente. Ma i danni
che trenta anni di regime hanno portato all’Egitto non si misurano in vittime.
L’estensione dei poteri di sicurezza a polizia e forze paramilitari sono state la
conseguenza diretta della ritrazione dello stato dallo spazio pubblico, causata
dalle misure neoliberali esasperate, promosse da Mubarak negli anni novanta.
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